Sono sincero: quando ho saputo della morte di Nick Kamen ho avuto un tuffo al cuore, un ritorno al futuro nostalgico. Alle medie il suo nome era automaticamente correlato alle feste di compleanno, al ballo con la ragazzina che ti piaceva, a quella sorta di ambiguità che lui emanava, tra James Dean ed Elvis Presley in un inedito contesto dance.
La figura di Kamen era apparentemente leggera come una piuma, ma di base aveva un peso specifico notevole: il suo primo singolo, Each Time You Break My Heart è stata una delle canzoni simbolo di una generazione – quella degli ’80 – che teneva la mente negli anni ’60 dei genitori e il corpo già nel 2000 dell’emancipazione dei costumi. E giocoforza, lui rappresentava l’anello mancante da seguire come una religione. Non a caso – per farvi capire come funzionava – in quell’anno andavano di moda i ragazzi mori con gli occhi verdi e io, biondo con gli occhi azzurri, avevo serie difficoltà a essere invitato a un lento.
Nick Kamen subì, per sua stessa ammissione, il successo incredibile dello spot della Levi’s in cui si spoglia in lavanderia, circondato da occhi femminili indiscreti a rimirare la sua bellezza. Le vendite dei Levi’s, grazie a lui, raggiungeranno quote assurde. A quel punto avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, tramutatosi in “feticcio”, soprattutto oggetto del desiderio di milioni di persone innamorate di uno spot. Lui sceglie invece di virare verso le sette note: questo perché fare il modello per lui era una necessità materiale, non una vocazione. Kamen si occupava da tempo di musica e sarà Madonna a salvarlo dall’essere fagocitato dal mondo della moda riportandolo sui giusti binari. La material girl scrive e produce la sua prima hit, lanciandolo nell’iperboreo delle icone pop degli ’80: puro Andy Wharol style, una pin up maschile in odore di classico maledetto seppur lanciato nei proverbiali 15 minuti di fama.
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Da questo momento il suo nome è sulla bocca di tutti, fa il botto commerciale: ma per l’appunto viene subito infilato nel recinto delle meteore, del modello senza cervello, di chi si è messo a fare dischi perché si toglieva i pantaloni e forse avrà anche concesso quello che c’era dentro al potente di turno. Tant’è che dopo il successo mondiale del primo disco omonimo, con il successivo Us troverà un trionfale riscontro solo in Italia, drammatica conferma che la festa sta finendo. Ma quando sembra che debba concludersi la sua carriera, riesce in un colpo di coda inaspettato riagguantando le vette delle classifiche con il singolo I Promise Myself e il disco Move Until We Fly e c’è un motivo. A parte il singolo I Promised Myself che sembra un incredibile taglia e cuci di Happy Xmas della premiata ditta Lennon-Ono mischiato con Words (Don’t Come Easy) di F. R. David, nell’album Kamen tenta suoni nuovi, provando un ibrido tra un pop leggero bagnato di bubblegum e la house music, genere all’ epoca in grandissima ascesa. A questo punto Nick Kamen prende il coraggio in mano e decide di scrivere quello che è il suo album per antonomasia: Whatever Whenever del 1992.
Dando per scontata la sua aderenza alla dance facilona di classifica, non tutti sanno che questo disco è invece il parto di uno che ha le idee chiare, e soprattutto idee guarnite di psichedelia. Sì, esatto, roba acida: dite addio al ragazzetto da poster in cameretta, qui c’è uno che rivendica la sua autonomia in musica e mette a nudo i suoi gusti di pancia e la sua abitudine a tè delle 5 “corretti”, motivato ad essere preso finalmente sul serio.
Innanzitutto il contesto del 1992 è molto cambiato: con i Nirvana primi in classifica e i Primal Scream osannati da tutti, la plastica degli ’80 non ha più senso. Nick prende la cosa come una sorta di liberazione: non è lui che – come si potrebbe pensare – si adegua alle nuove mode giovanili, ma al contrario finalmente fa quello che vuole in quanto egli stesso giovane e attento ai cambiamenti. Si assume la responsabilità di gran parte della produzione, decide di registrare tutto dal vivo in studio, ci mette una vita ad assemblare le canzoni con l’aiuto in sede ritmica del fratello minore Barry, braccio destro dell’intera operazione, lasciandosi la libertà di smontare e rimontare i pezzi alla giornata, proprio come in una moviola.
E infatti il singolo di traino, You’re Not the Only One (ballata alla She’s Leaving Home condita con una 303 e ritmica alternative dance), sarà supportato da un video all’epoca piuttosto coraggioso per gli standard di Nick: una roba girata in una serie di formati analogici, super8, Hi 8, 35 millimetri la cui pellicola sarà animata e dipinta a mano in pieno stile new american cinema. Il contenuto invece è del tutto British: l’ex modello inglese tira fuori la sua passione per la storica psichedelia pop britannica mischiandola alle suggestioni della new summer of love, di gruppi come gli EMF, Happy Mondays e via dicendo, indugiando verso composizioni beatlesiane come fanno fede I’ll Find Another Way e la harrisoniana This Time Is Our Time e anticipando la grande stagione del Brit pop di Oasis e compagnia cantante, che saccheggiavano sfacciatamente e senza problemi quel periodo storico 60s.
Un largo uso di effetti di modulazione come il flanger o il Leslie nei pezzi fa le veci della pittura fresca sulla pellicola, entrando in punta di piedi anche in campo dreampop/shoegaze. Pellicola musicale che è fatta di ritmi acid e rave, a volte anche simil jungle per non dire proto trip hop, frutto della sincera frequentazione di Nick e del suo team nei vari club dedicati: la sua abnegazione nel poggiare melodie catchy pensate al momento su un tappeto danzabile e “lisergico” potrebbe definire questo album come il suo Achtung Baby.
Per sua stessa ammissione, viene scritto come fosse un atto di autocoscienza, per conoscersi a fondo. Finita l’era dei compromessi musicali, Nick prende di petto le sue vere influenze psyc, suona tutti gli strumenti e arrangia tutti i brani, forte di una sicurezza compositiva maturata negli anni che convince incredibilmente anche i suoi discografici, probabilmente stupiti dal successo del precedente Move Until We Fly.
Ma ahimè, a tanta forza d’animo non seguirà un adeguato feedback. La gente praticamente ignora il disco, che non riuscirà a entrare in nessuna chart. Molti lo vedono come un bambolotto della musica commerciale saltato improvvisamente sul carro dei vincitori alternative, proponendo qualcosa di lontano dalla sua immagine e dal suo stile abituale e quindi – per questo – pensano che sia tutto costruito a tavolino per cercare nuovi consensi. Nessuno che si sia soffermato invece sulla qualità delle canzoni, su un gioiellino di disco curato in ogni sua parte che oggi – a mente fresca – possiamo ascoltare senza influenze esterne dei critici o del (mal) costume d’epoca, trovandoci addirittura ghiotte anticipazioni dell’hypnagogic pop degli anni 2000. Nick aveva previsto infatti che un certo tipo di mood “droghereccio” si sarebbe alleggerito di moltissimo rispetto alle esperienze estreme di un tempo e che avrebbe trovato posto nelle orecchie della gente come l’lsd sparso nelle tubature dell’acqua potabile.
Dopo l’insuccesso di Whatever Whenever Kamen si dedicherà alla sua seconda passione, la pittura, forte del fatto di aver puntato tutto rischiando sulla sua libertà di osare e di suonare quello che era giusto, senza piegarsi alle leggi del mercato. Sapeva quale sarebbe stato il suo destino e lo ha accettato come Socrate nel bere la cicuta. Solo per questo merita di essere ricordato come uno degli ultimi outsider di uno star system che non ha mai capito un concetto fondamentale: “I’m only human / Flesh and blood / Just the same as you/ Speak the truth / Tell the same lies / Don’t avoid it / You know it’s true”. Ciao Nick, e grazie.