Lo spirito di Neil Peart
I musicisti dei Rush, la moglie, il manager, gli amici ci conducono in un viaggio fuori dall'ordinario negli ultimi anni di vita del grande batterista. Le idee, le passioni, la malattia, la morte, il carattere unico di un musicista come non ne fanno più
Foto: Fin Costello / Redferns
Neil Peart si era ritirato da appena dieci mesi quando ha capito che qualcosa non andava. Il problema erano le parole. Lui, membro dei Rush, era uno dei batteristi più riveriti al mondo. A vederlo muoversi freneticamente sulla sua pedana sembrava sfidare le possibilità umane. Prima di partire in tour coi Rush, e prima ancora di provare con la band, suonava da solo per intere settimane per essere certo di replicare in modo corretto le parti suonate in studio. Dietro agli avambracci muscolosi e alle enormi mani callose c’era un intellettuale autodidatta autore dei testi cerebrali e filosofici del gruppo, scrittore di libri incentrati sui suoi viaggi in moto, resi in modo meravigliosamente dettagliato.
Peart era solito appuntarsi le cose, teneva diari, inviava e-mail che somigliavano a lettere dell’epoca vittoriane più che a messaggi digitali. Scriveva per le riviste specializzate di batteria e postava sul suo sito saggi e recensioni di libri. Pur avendo smesso di studiare a soli 17 anni, s’era messo in testa di leggere «tutti i grandi libri della storia». Usava i compleanni degli amici come pretesto per spedire «resoconti della sua vita», come racconta ridendo il cantante e bassista dei Rush Geddy Lee.
«Scrivere è il mio modo di pensare», diceva nel 2015. «Mi viene in mente una frase detta da E. M. Forster: come faccio a sapere che cosa penso prima di dirlo? Ecco, io scopro quel che penso mentre scrivo».
Nell’agosto 2015, poco dopo il suo 63esimo compleanno, Peart si è esibito per l’ultima volta con i Rush. Intendeva andare avanti a scrivere, un’attività meno sfiancante di quella di batterista rock. Sognava una vita tranquilla. S’immaginava a lavorare dalle 9 alle 17 in quella che chiamava la sua caverna, in realtà un garage lussuoso che ospitava le sue auto vintage e che fungeva da ufficio, a un isolato di distanza dalla sua casa a Santa Monica, in California. Il resto del tempo lo passava con Carrie Nuttall, con cui era sposato da vent’anni, e con la figlia Olivia, in età da scuola elementare, che lo adorava. Pianificava di passare con loro le estati nella sua spettacolare proprietà con affaccio su un lago nel Quebec, non lontano da Le Studio dove i Rush avevano registrato Moving Pictures e altri dischi.
Peart ha avuto un assaggio della vita che intendeva fare prima dell’ultimo tour dei Rush. Non vedeva l’ora di tornare a farla: era una rock star che ambiva ad avere una vita normale. «È dura voltare le spalle a una vita domestica felice e creativa», mi diceva nel 2015, sorseggiando Macallan con ghiaccio nel suo garage poco prima della partenza del tour. «Aspettavo che Olivia andasse a scuola per venire qui. Sono un tipo mattiniero, come lei. Andavo a prendere il pranzo e tornavo qui. Non sono cose che do per scontato. M’incamminavo lungo la Olympic fino a Starbucks o a Subway o quello che è, e pensavo: “Non è fantastica questa vita?”».
Alla fine dei tour, quando non stava nella sua caverna, faceva del volontariato nella biblioteca della scuola della figlia. «A Oliva piaceva un sacco», ricorda Nuttall. «Riusciva a vedere papà anche a scuola». La sera tornava a casa e cucinava per la famiglia. «Per la prima volta da decenni, faceva la vita che voleva. È stato un periodo dolce e felice. Poi gli dei, o chi per essi, hanno distrutto tutto».
«Mi fa stare male il pensiero che abbia avuto così poco tempo per godersi la vita per la quale aveva lavorato tanto», dice Lee.
Peart ha cominciato a fare cruciverba all’inizio degli anni ’70, quando si è trasferito dal Canada in Inghilterra in cerca di fortuna come batterista, per poi finire a lavorare come manager di un negozio di souvenir, con un sacco di tempo a disposizione nei trasferimenti in metropolitana. Negli ultimi vent’anni, le parole crociate dell’edizione domenicale del New York Times erano diventate un rito. Nel giugno 2016 per la prima aveva fatto fatica. «Non ci riusciva proprio», spiega il manager dei Rush Ray Danniels. «Si chiedeva perché».
Ha tenuto la cosa per sé, ma in estate ha cominciato a dare segni di quella che Nuttall pensa fosse depressione. Ne ha parlato con Danniel quando è andata a trovarlo a Muskoka, nell’Ontario. «Le ho detto: Carrie, ha tutto quel che vuole. Ha vinto. È finalmente libero. Ha incassato un bell’assegno per l’ultimo tour. Non può essere depressione».
Alla fine di agosto sia Nuttall che la madre del musicista hanno notato che Peart era particolarmente silenzioso. Quando parlava, «si incasinava con le parole», come ha poi confessato ai compagni della band. È stato visitato da un dottare, ha fatto una risonanza magnetica, si è sottoposto a un’operazione. La diagnosi era drammatica: glioblastoma, un tumore del cervello aggressivo che lascia in media dai 12 ai 18 mesi di vita.
Un test genetico ha rivelato che la terapia poteva funzionare con il cancro di Peart, che è sopravvissuto fino al 7 gennaio 2020, oltre tre anni dopo la diagnosi. Era quello che si chiama lungosopravvivente.
«Tre anni e mezzo dopo» ricorda Lee «ancora fumava nel portico di casa. Ha mandato affanculo il Grande C più a lungo che ha potuto».
Poco prima dell’operazione, Peart ha fatto una cosa per lui inusuale: ha chiamato il chitarrista dei Rush Alex Lifeson su FaceTime per fargli gli auguri di compleanno. «Non faceva tante chiamate, non gli piaceva parlare al telefono», spiega Lifeson. «Preferiva scrivere e-mail, bellissime. Ero scioccato. Si capiva che qualcosa non andava. Mi dicevo: forse è colpa della connessione, ma la verità è che si capiva che non era a posto. E ho continuato a rimuginarci anche dopo».
Un paio di settimane dopo, Peart ha inviato un’e-mail ai compagni della band per dare loro la notizia. Non ha usato giri di parole. «L’ha scritto e basta: ho un tumore, non è uno scherzo», ricorda Lee. Lifeson era su un campo da golf quando ha ricevuto il messaggio: «Mi sono messo a piangere». In quelle situazioni, dice Lee, «o combatti o fuggi». Per Lifeson e Lee la priorità è diventata andare a trovare l’amico, che viveva lontano da dove stavano loro, a Toronto.
Dicono gli amici che anche nel periodo più drammatico Peart ha affrontato la malattia in modo eroico e stoico. «Era un duro», dice Lee. «Stoico è la parola giusta. Ovviamente era incazzato nero, ma ha dovuto accettare la realtà. Era diventato bravo ad accettare le notizie di merda. Ha fatto del suo meglio per restare in vita il più a lungo possibile, per sé e per la famiglia. E ci è riuscito incredibilmente bene. Ha accettato il suo destino, io non sarei riuscito a farlo altrettanto bene».
C’era del fatalismo in Peart, un uomo che ha scritto una canzone sull’arbitrarietà dell’universo e l’ha vissuto sulla sua pelle. Nel 1997 la figlia Selena è morta in un incidente stradale mentre andava al college in auto. Poco dopo la sua compagna Jackie è morta di cancro. Il sentimento di perdita era enorme, tanto grande da spingere un uomo razionale come lui a chiedersi se non fosse vittima di una qualche maledizione.
«Mia figlia è morta quando aveva 19 anni, mia moglie a 42. Io ho 62 anni e sono ancora vivo», mi ha detto nel 2015 a proposito della scelta di non smettere di fumare (il fumo non è fra le cause conosciute del glioblastoma). «Quanta gente è morta più giovane di me? Quanti batteristi? È come se mi fosse stato concesso un tempo bonus. Qualcosa mi ucciderà. Vado in moto. Guido auto sportive. Volo spesso. La vita è pericolosa. Mi piace quel che ha detto un anziano a proposito delle moto: se la ami davvero, finirà per ucciderti. Il trucco è sopravvivere in modo che ti uccida qualcosa d’altro».
Il coraggio non gli impediva di soffrire all’idea di lasciare la figlia. «Lo devastava», dice Danniels. «Diceva che era un cerchio che si chiudeva: aveva provato dolore della perdita di una figlia e ora quel dolore l’avrebbe provato un’altra figlia».
Peart aveva il suo lutto da elaborare, dice Nuttall, «per il futuro che non avrebbe avuto e per le esperienze che non avrebbe vissuto con Olivia e con me. Se c’è uno che ha vissuto al massimo, quello è Neil. E aveva ancora tanto da fare. Tutti dicono: è stato stoico e ha accettato il suo destino. È vero, ma gli ha spezzato il cuore».
Peart voleva trarre il meglio dal tempo che gli rimaneva, una cosa che del resto era abituato a fare. Si chiedeva: «Che cosa posso fare di grandioso oggi?». La risposta il più delle volte consisteva nel salire sulla suo moto BMW e andarsene in un qualche parco nazionale poche ore prima di suonare in un palasport (“Puoi fare tante cose in una vita”, dice il testo che ha scritto per Marathon, uno dei pezzi più potenti dei Rush, “se non ti bruci troppo velocemente”). Del resto il suo stile distintivo in quanto batterista consisteva nello stipare in un ogni misura il massimo delle informazioni ritmiche. È come se avesse passato la vita a forzare i limiti del tempo.
«Ha vissuto in modo incredibilmente profondo e pieno», dice uno dei suoi migliori amici, il batterista dei Jethro Tull Doane Perry. «Nel suo caso poteva voler dire stare da solo, leggere un libro nella casa sul lago: era un’esperienza coinvolgente tanto quanto suonare di fronte e decine di migliaia di persone».
La sua difesa della privacy divenne ancora più strenua. Della malattia sapevano pochi amici che hanno mantenuto il segreto fino alla fine. Era un peso difficile da portare soprattutto per Lee e Lifeson, che facevano interviste e ricevevano telefonate da amici e colleghi che chiedevano conferma delle voci che circolavano. «Neil ci ha chiesto di non parlarne con nessuno», spiega Lifeson. «Voleva avere il controllo della situazione. L’ultima cosa che voleva al mondo era che la gente arrivasse di fronte a casa sua a cantare Closer to the Heart, o robe del genere. Era la sua grande paura. Non voleva quel tipo d’attenzione. E però mentire, eludere o depistare la gente era difficile. Molto difficile».
Peart è sempre stato il tizio che scaccia discussioni spiacevoli con un gesto della mano e un «lasciamo perdere». È esattamente la risposta che gli amici ottenevano quando gli chiedevano della sua malattia o della terapia. «Non voleva buttare via del tempo parlando di quelle cose», spiega Lee. «Voleva divertirsi quand’era con noi. Voleva parlare di cose reali e l’ha fatto fino all’ultimo».
Lee scherza e dice che Peart non si lamentava mai, a meno che «non finisse le sigarette. Una volta sono andato a trovarlo senza portare con me una bottiglia», ricorda il musicista, noto collezionista di vino. «Andavo sempre a casa sua con una bottiglia. Quella volta invece sono arrivato a mani vuote e mi è sembrato atterrito. Il giorno dopo io e Alex siamo andati in un negozio per assicurarci di arrivare con un po’ d’alcol. Gli è tornato il buonumore».
È stato in quel periodo che Peart ha superato l’avversione per l’introspezione e la nostalgia e ha passato un sacco di tempo ad ascoltare i vecchi dischi dei Rush. «Provava un intenso desiderio di imparare», dice un altro caro amico, il frontman dei Vertical Horizon Matt Scannell. «Si chiedeva di continuo quali erano le novità. Pensava sempre al poi. Gli mandavo dei CD e se era musica vecchia non l’ascoltava. Bello che abbia trovato il modo di guardarsi indietro e godere di quel che aveva fatto. Prima di allora sarebbe stato una specie d’anatema».
«Non siamo gente che ascolta la nostra vecchia musica», commenta Lifeson. «Una volta che è fatta ce la mettiamo alle spalle. Immagino che stesse ripensando a quel che aveva fatto, ai traguardi che aveva tagliato musicalmente parlando. Sai, a volte te lo scordi. È stato bello vederlo ricordare e sorridere. Le volte in cui ci scriveva, ci parlava della nostra vecchia musica che ascoltava e che ne pensava».
È una cosa che non sorprende Lee. «Conoscendo Neil e sapendo che gli rimaneva poco tempo da vivere, è normale che abbia voluto ripensare al lavoro di una vita. Poteva esserne orgoglioso e voleva condividere quella cosa con Alex e con me. Ce ne parlava tutte le volte che lo andavamo a trovare. Voleva che sapessimo che era orgoglioso di quel che avevamo fatto».
Fly by Night è il primo album inciso da Peart coi Rush. Si apre con la intro di Anthem, chitarra, basso e batteria intrecciati in un sincopatissimo 7/8, con un lavoro pazzesco sul charleston. Il pezzo è ispirato all’idea di individualismo messa a punto da Ayn Rand. La scrittrice era stata un’influenza fondamentale per il giovane Peart. Col tempo è diventata una delle tante basi della sua formazione filosofico-intellettuale. Si definiva «libertario di sinistra» o «libertario dal cuore tenero». Nel 2015 ha detto a Rolling Stone che una volta ottenuta la cittadinanza statunitense avrebbe votato democratico.
Fino all’album precedente, dove la batteria era suonata dal meno talentuoso John Rutsey, Lee cantava versi pieni d’entusiasmo su basi da bar band influenzate dai Led Zeppelin. Ora cantava di oggettivismo su intricate basi prog metal, un genere che proprio i Rush stavano inventando. «C’eravamo messi in testa di suonare l’hard rock più complesso al mondo», mi ha detto Lee nel 2015. «Ho capito fin dalla prima audizione che era lui il batterista che cercavamo».
Peart ha passato l’infanzia nella fattoria di famiglia. Poi il padre, destinato a gestire un’azienda di ricambi auto, ha portato la famiglia a Port Dalhousie, alla periferia della cittadina di St. Catharines, Ontario. L’infanzia del batterista era stata idilliaca: passava tanto tempo all’aperto, in mezzo alla natura. «È lì che si sentiva a casa, in mezzo al silenzio, da solo o quasi», spiega l’amico Doane Perry.
E poi c’è stato un evento traumatico. A 10 anni, stava nuotando nelle acque del Lago Ontario quando d’improvviso ha cominciato a sentire una gran stanchezza. Ha cercato d’aggrapparsi a una zattera e alcuni ragazzi più vecchi di lui hanno avuto la bella idea di impedirglielo. Lui si è agitato e si è sentito affogare. Due compagni di classe gli hanno salvato la vita all’ultimo istante. L’episodio gli ha lasciato un certa diffidenza nei confronti degli estranei. Anni dopo, il terrore di quegli attimi gli è tornato in mente quando è stato travolto da un gruppo di fan. Ha quindi sviluppato una vera fobia per la sensazione d’essere intrappolato, fobia che modellerà il suo profondo disagio per la fama e il costante bisogno di fuggire dal microcosmo chiuso dei tour.
A scuola era talmente brillante da saltare due classi e iniziare le superiori a soli 12 anni. Ha iniziato a prendere lezioni di batteria e per un anno s’è esercitato senza nemmeno avere un vero strumento a casa. L’interesse per la batteria è nato quando ha visto il biopic The Gene Krupa Story. Il jazz delle big band era la musica preferita dal padre e molti anni dopo Pearl farà un serio tentativo di suonare in quello stile. Il suo idolo era il folle batterista degli Who Keith Moon e però più diventava bravo e più capiva che non voleva suonare come lui, che quello stile caotico non lo interessava. Alla fine ha trovato un modo per canalizzare l’energia di Moon suonando parti sì appariscenti e drammatiche, ma più precise e composte, ideate secondo una logica che potremmo chiamare tridimensionale (essendo incapace di stare fermo, negli ultimi anni aveva preso un’altra direzione, lavorando sull’improvvisazione).
Peart era un adolescente dai capelli lunghi che indossava mantello e scarpe viola. Non piaceva ai tipi sportivi del luogo. «Sono stato un ragazzo infelice. Poi improvvisamente ho scoperto di essere un freak». E di amare la batteria, che è diventata la sua ossessione. La suonava di continuo, fermandosi solo quando glielo chiedevano i genitori. «Dal giorno in cui mi sono seduto dietro la batteria c’è stata solo la musica. Andavo bene a scuola. Da quel momento in poi non me n’è fregato più niente».
A 17 anni ha lasciato la scuola. Nel giro di un anno si è trasferito a Londra dove ha passato 18 mesi frustranti. Quand’è tornato in Canada le sue idee sulla musica erano cambiate. Aveva deciso che non avrebbe mai e poi mai suonato solo per soldi. Piuttosto, avrebbe lavorato di giorno e suonato di sera per passione. «Ho giurato che non avrei mai tradito i valori che avevo a 16 anni: mai vendersi, mai compiacere i potenti».
Trovava offensiva la facilità con cui nel rock ci si vendeva e lo si capisce dal verso sul “suono dei venditori” contenuto in The Spirit of Radio. Per un certo periodo ha lavorato in un negozio di dischi con i fratelli della sua futura moglie, Jackie Taylor. È poi finito a lavorare per l’impresa del padre, contribuendo all’informatizzazione dell’inventario.
Il tentativo di condurre un’esistenza normale è durato meno di un anno ed è finito quando è stato reclutato da una band di Toronto sotto contratto con una major. Per i successivi 40 anni ha inciso e fatto concerti coi Rush. «Guarda le foto dei primi anni, guarda come sorride», nota Lee. «È stato felice per un bel pezzo. Quel bel sorriso s’è smorzato dopo anni di estenuante vita on the road».
Fin dal principio, in realtà, Peart ha cercato di sfruttare i tempi morti tipici dei tour portando con sé pile di libri tascabili e colmando le sue lacune culturali. Intanto, scriveva per i primi dischi dei Rush alcuni fra i testi più strani del rock. (“Ho cenato con della melata!”, canta Lee nel classico del 1977 Xanadu) attingendo alla fantascienza, al fantasy e a Rand prima di passare negli anni ’80 a temi più terreni.
Alla band toccava fidarsi di quei testi, come spiega Lee: «Non era roba che conoscevano e a volte magari non ci piaceva. Se ne parlava». Col passare degli anni il processo di scrittura è diventato più collaborativo. «Per un bel po’ di anni, quando riascoltavo le tracce vocali appena registrate Neil sedeva con me dietro al bancone a parlare dei passaggi che potevano essere migliorati o riscritti lì sul momento». È successo anche che Lee selezionasse pochi versi d’una canzone che gli piacevano e che Peart riscrivesse tutto partendo da quelli.
L’album del boom dei Rush, la monumentale opera rock 2112 datata 1976, era una rivendicazione drammaticamente seria di libertà. I sacerdoti di Syrinx, supremi controllori della società distopica descritta nel disco, simboleggiavano i dirigenti discografici che volevano che i Rush somigliassero maggiormente ai Bad Company (per i fan adolescenti, rappresentavano i genitori che non capivano).
Anche nei testi anni ’70 c’era più senso dell’umorismo di quello che veniva riconosciuto a Peart. Per dire, By-Tor and the Snow Dog del 1975 era ispirata ai nomi di due cani di Danniels. «Un giorno ho detto a Geddy: non sarebbe divertente scrivere un pezzo fantasy su By-Tor e Snow Dog?», mi ha detto Peart. Anche nel momento più prog della loro storia, Hemispheres del 1978, il trio era tanto consapevole del suo carattere tanto da piazzare il sottotitolo “Esercizio in autoindulgenza” allo strumentale capolavoro La Villa Strangiato.
Nel 1979, il singolo The Spirit of Radio ha portato i Rush sulle radio FM. Nel loro best seller Moving Pictures, che conteneva una gran performance di Peart in Tom Sawyer, c’erano alcune delle più incredibili parti di batteria della storia del rock. I Rush erano diventati enormi e a Peart la cosa non piaceva. Dopo aver sentito The Wall, l’album dei Pink Floyd che racconta di una rock star alienata, scrisse una lettera a Roger Waters spiegandogli che quel disco descriveva alla perfezione il suo stato d’animo.
L’amico Matt Stone, co-creatore di South Park, era colpito dal disagio provato dal batterista quando veniva riconosciuto per strada, e non solo in quel periodo di grande successo. «Aveva uno strano rapporto con la fama», racconta. Che è poi il motivo per cui amava le feste di Halloween organizzate da Stone: poteva presentarsi in incognito con addosso un costume (anche da donna).
Per fuggire dalla situazione «caricavo sul tour bus la bici e nei giorni liberi me ne andavo in giro. Se poi la data successiva era a un centinaio di chilometri di distanza, mi muovevo da solo ed era una figata. Gli altri se ne andavano e io rimanevo nella mia stanza di motel, e non c’erano cellulari né niente. Io e la mia bici». Lontano dalla band, viaggiava in Africa (dove ha portato con sé una copia dell’Etica di Aristotele e una raccolta di lettere di Vincent Van Gogh) e in Cina. La povertà vista in Africa lo trasformò, rendendo il «libertario» un po’ più «tenero».
Era dal 1989 che cercava di convincere i Rush a smettere di fare tour. La figlia Selena aveva 11 anni. «Dopo tanto pensare ho deciso che se mi considero un musicista, parte del mio lavoro è andare in tour. Ma suonare in sala prove mi piace più che esibirmi di fronte al pubblico. Il senso di sfida e la gratificazione sono le stesse, ma non c’è pressione. E non devi lasciare casa. E così già nell’89 fantasticavo: immagina se ci fosse un ologramma che mi permette di andare a suonare sempre nello stesso posto, darci dentro e poi tornare a casa».
E poi c’era la pressione derivante dalla reputazione che s’era fatto. Doveva esserne all’altezza, ogni santo giorno. «Non aveva una considerazione troppo alta di sé, non più alta di quella di tanti colleghi», spiega l’amico Stewart Copeland dei Police. «Ma sentiva la responsabilità d’essere considerato un dio della batteria. Direi che era proprio un peso».
Nel maggio 1994 Neil Peart ha riunito ai Power Station di New York un cast di batteristi straordinari jazz e rock, da Steve Gadd a Matt Sorum a Max Roach, per un tributo a Buddy Rich. Lì ha notato che uno di loro, Steve Smith, era migliorato notevolmente dall’ultima volta in cui s’erano visti. Smith gli ha spiegato che aveva preso lezioni dal guru del jazz Freddie Gruber. E così, nel giorno del suo 42esimo compleanno, quello che tutti consideravano il più grande batterista rock vivente ha cercato Gruber e ha cominciato a prendere lezioni. «In fondo i maestri non sono che allievi maestri», diceva.
Era convinto che il tempo passato a suonare nei Rush con i sequencer, negli anni ’80, lo avesse irrigidito. Voleva sciogliersi un po’. Era un grande musicista, eppure aveva dei limiti. «Onestamente, non penso che abbia mai imparato a suonare il charleston per bene in stile jazz», dice con affetto Peter Erskine, che negli anni 2000 è stato suo maestro.
I Rush sembravano in un periodo di stanca creativa nell’album del 1996 Test for Echo, eppure Peart era convinto di avere registrato le sue parti migliori di sempre, grazie a un rinnovato senso del tempo. Aveva anche trovato un modo per rendere sopportabili le tournée, sostandosi da una data all’altra a cavallo della sua BMW. «È un modo per uscire nel mondo reale, vedo la gente al lavoro, parlo con le persone nelle aree di servizio e nei motel, vedo la vita americana di tutti i giorni». La band è tornata in tour dopo cinque anni.
Il 10 agosto 1997, Peart e la moglie Jackie hanno aiutato Selena, che allora aveva 19 anni, a caricare le sue cose sull’auto con cui sarebbe andata all’University of Toronto, per il secondo anno di studi. I genitori aspettavano una chiamata, quando sarebbe arrivata. Qualche ora dopo si trovarono invece un poliziotto sulla porta di casa. Al funerale di Selena, Pearl disse agli amici che avrebbe smesso di suonare. Lifeson e Lee erano convinti che la band fosse finita. Jackie era distrutta. Pochi mesi dopo, le venne diagnosticato un tumore metastatico. Peart scriverà che la donna aveva ricevuto la notizia quasi con sollievo. È morta nel giugno 1998. Ora riposa vicino alla figlia.
Peart è salito in moto e s’è lasciato la vita che conosceva alle spalle. Si sentiva alienato. Quando gli è capitato di vedere un suo video non si è quasi riconosciuto. Ha cominciato a prendersi curarsi della parte di sé che gli era rimasta, quella che chiamava «anima bambina». A volte cercava di annientarsi con alcol e droga, come spiega nel libro di memorie Ghost Rider. A metà del viaggio, prima di dirigersi verso il Messico, ha rotto l’isolamento per passare qualche giorno a Los Angeles con il fotografo dei Rush Andrew MacNaughtan.
Una delle poche cose che lo facevano sorridere era South Park e perciò accettò volentieri che MacNaughtan lo presentasse a Stone. «Andrew mi disse che Neil sarebbe venuto in città», ricorda Stone. «Facciamo un po’ di casino con lui, ci siamo detti. Per via di quel che era successo mi suggerì di non parlare di ragazze e nemmeno di figli. E perciò abbiamo parlato di arte e filosofia, rock e viaggi. Ma era triste, cazzo quant’era triste».
Quel viaggio in moto durato un anno e 90 mila chilometri ha permesso a Peart di guarire. Alla fine è rimasto nella California meridionale per ricominciare daccapo. «Mi sono trasferito con una valigia, una bici e uno stereo portatile», mi ha detto. «Era tutto quel che che avevo. Ho affittato un piccolo appartamento al Santa Monica Pier. Facevo yoga, andavo in giro in bicicletta, tornavo a casa e ascoltavo lo stereo, era fantastico». Grazie a MacNaughtan ha incontrato Carrie Nuttall, una fotografa di talento, e se n’è innamorato. I due si sono sposati nel 2000. Peart ha chiamato la band e ha detto loro che era pronto per tornare.
Nel 2015, quando hanno festeggiato il quarantennale, i Rush erano più popolari che mai. Erano entrati nel canone classic rock, erano parte della cultura popolare. Dopo vari cambiamenti stilistici erano tornati al loro approccio classico per quello che sarebbe stato il loro ultimo disco in studio, il concept Clockwork Angels del 2012.
Peart era di nuovo riluttante all’idea di tornare a suonare in giro per il mondo. La figlia Olivia, che aveva allora 5 anni, era turbata e triste per la sua assenza da casa. Il batterista ha ceduto solo perché Lifeson aveva l’artrite e temeva che il tour 2012-13 fosse l’ultima occasione per suonare. «Mi sono messo in trappola», ha scritto Peart. «Sono tornato in hotel e ho fatto il matto in un attacco di rabbia degno della sindrome di Tourette». Dopo essersi calmato, ha deciso di seguire l’adagio di Freddie Gruber: «È quello che è. Fattene una ragione».
Il tour procedeva e Lifeson cominciava a sentirsi meglio. A quel punto a soffrire era Peart. A 62 anni, continuava a farsi centinaia di chilometri al giorno in moto, a volte sotto la pioggia, prima di suonare per tre ore. Gli è venuta un’infezione dolorosa a un piede. «Riusciva a malapena a raggiungere il palco», ricorda Lifeson. «Alla fine gli hanno preso un golf cart per portarlo in giro. Eppure suonava ogni sera per tre ore con la stessa intensità. Pazzesco».
All’inizio del tour il batterista stava bene. Aveva pure detto a Danniels che non era detto che non avrebbe accettato di fare altre date. I problemi fisici gli hanno fatto cambiare idea. Ricorda Danniels: «Me l’ha detto chiaramente durante la seconda parte del tour: “Per me basta, non lo farò più”. Era frustrante». Lo era anche per Lee e Lifeson che erano nel bel mezzo di uno dei più grandi tour nella storia dei Rush e suonavano una set list da sogno affrontando il loro catalogo in ordine cronologico inverso».
«Ho cercato di persuaderlo», spiega Danniels, «ma non sono riuscito a smuoverlo nemmeno arrabbiandomi. Non era più un cavallo da corsa. Era un mulo. E il mulo non si sarebbe mosso. Alla fine ho mollato. Se avessi continuato a pressarlo la nostra amicizia ne avrebbe risentito».
La band non ha mai parlato davvero del significato dell’ultimo concerto di Rush, in un Forum sold out a Los Angeles. «La conversazione si è svolta sul palco, con gli sguardi», dice Lee. Peart aveva fatto capire che qualcosa di unico e molto probabilmente definitivo stava accadendo quando a fine concerto era avanzato sul fronte del palco coi due compagni di band. In quarant’anni di musica non l’aveva mai fatto. «È stato bellissimo», ricorda Lee.
Nonostante tutto c’era la speranza residua che la band avrebbe in un modo o nell’altro continuato. «Mi chiedi se penso che Neil sarebbe tornato suonare?», dice Danniels. «La risposta è sì. Un giorno, magari. Forse qualcosa di diverso, una residency a Las Vegas o chissà cosa. Penso proprio di sì, almeno prima della malattia. È quella che l’ha fermato per sempre».
Gli anni della malattia sono stati caratterizzati da un’enorme incertezza. Per un anno, prima che il tumore tornasse, Peart è parso guarito. «Ogni volta che lo salutavi poteva essere l’ultima», ricorda Lee. «Non sapevi come sarebbero andate le cose, anche quando stava abbastanza bene. Sono stati tre anni e mezzo senza alcuna certezza. E così, ogni volta che ci si salutava, ci si dava un abbraccio enorme».
Una volta Lifeson è rimasto a Los Angeles da solo per qualche giorno. «Quando me ne sono andato, gli ho dato un grande abbraccio e un bacio», ricorda il chitarrista. «Lui mi ha guardato e ha detto: “Questo dice tutto”. È quella volta lì che sento di avergli detto addio. L’ho visto un paio d’altre volte, ma quel momento è stato speciale».
L’ultima volta che Lee e Lifeson hanno visto l’amico i tre e Nuttall hanno fatto un’ultima, grandiosa cena alcolica. «Ridevamo a crepapelle», rammenta Lifeson. «Ci si raccontava barzellette e ricordavamo i concerti e i tour e i membri della troupe e storie di quel che accadeva in camerino o sul tour bus. È stato naturale, giusto, completo».
Mentre la malattia progrediva, Peart stava sempre peggio, «ma è stato lucido fino alla fine», dice Perry (secondo gli amici, le voci secondo cui era su una sedia a rotelle e incapace di parlare sono false). Ha continuato a fare la sua vita, andando alla sua caverna ogni giorno, ospitando lì gli amici, organizzando l’ultima festa di compleanno nell’autunno del 2019.
Quando ormai non poteva più guidare, lo portavano in giro gli amici Michael Mosbach e Juan Lopez. «Sono grata e orgogliosa di essere riuscita a dare a Neil la possibilità di fare tutte quelle cose fino alla fine», dice Nuttall, «ma senza Juan e Michael non ce l’avrei fatta».
Dopo l’ultimo concerto coi Rush, Peart non ha più toccato la batteria. Quella che aveva a casa era di Olivia, che prendeva lezioni e si stava dedicando seriamente allo strumento. Quand’era ragazzo, i genitori di Peart gli avevano permesso di sistemare la batteria in soggiorno e lui aveva fatto lo stesso con Olivia. Pur avendo un genitore così ingombrante, la figlia non era assolutamente intimidita quando si trattava di sonare e questa cosa dice molto di Peart.«Neil l’ha detto subito: “ce l’ha dentro”», ricorda Nuttall. «L’ha ereditato da lui e naturalmente questa cosa lo entusiasmava. Ha fatto di tutto perché non si sentisse intimorita dalla sua presenza. Non se ne stava lì a fissarla durante le lezioni. Se ne stava in disparte, non visto. Però ascoltava».
È stato un periodo surreale per la famiglia e gli amici di Neil Peart: prima la morte, poi la pandemia. Elaborare il dolore in un mondo che si è fermato non è stato facile. «Sembra che non sia passato poi tanto tempo», commenta Lee. I drammi in casa Rush non erano finiti. Lifeson si è ammalato gravemente a marzo, è stato ricoverato in ospedale per alcuni giorni e messo sotto ossigeno. Non era Covid-19, ma influenza, anche se ha perso gusto e olfatto. Si è poi ripreso completamente.
Una cerimonia in memoria di Peart prevista a Toronto è stata annullata, ma a Los Angeles c’è stata una cena con band e amici, e un memoriale più formale organizzato dalla vedova alcune settimane dopo. «Carrie ha scelto un posto grandioso con vista sul Pacifico», ricorda Perry. «È stato un pomeriggio bellissimo, un momento di guarigione per tutti quanti. Abbiamo visto vecchie diapositive, anche di quand’era ragazzo».
Alcuni amici – Scannell, Perry, Copeland e il co-autore Kevin Anderson – hanno preso la parola di fronte a un pubblico che comprendeva i membri dei Rush e altri batteristi come Taylor Hawkins dei Foo Fighters, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, Danny Carey dei Tool. Nel suo discorso Copeland ha notato che tutti i batteristi presenti a causa di Peart si sono sono sentiti dire dai fan: «Sei il mio secondo batterista preferito al mondo».
L’ultima a prendere la parola è stata Olivia, 11 anni. «È stata meravigliosa», dice Perry. «Lo vedi che è la figlia di Neil, è una tipa sveglia».
Olivia e la madre stanno ancora facendo i conti con la morte del loro caro e per di più sono isolate da mondo. La chiusura del confine fra Stati Uniti e Canada le ha tenute lontane per mesi dalla famiglia allargata di Peart. «Le nostre vite sono state sconvolte», dice Nuttall, che ha trascorso il Natale da sola con la figlia. «Otto settimane dopo la sua morte ci siamo ritrovate sole in casa ed è stata dura. Pensiamo a lui ogni giorno, parliamo di lui ogni giorno, sentiamo la sua mancanza ogni giorno». Olivia continua a prendere lezioni di batteria.
Dopo la morte dell’amico, Lee e Lifeson non hanno avuto granché voglia di prendere in mano gli strumenti. «Amo suonare e in vita mia non ho mai, mai pensato smettere», dice Lifeson, durante una videochiamata collettiva con Lee. Dietro di lui, nel suo studio, ci sono una dozzina di chitarre. «Mi sono sempre detto: continuerò a suonare anche quando non starò più in piedi e mi cagherò nelle mutande. Ora non lo penso più. Dopo la sua morte, non mi sembra più tanto importante. Ma credo che lo stimolo tornerà».
«Per un sacco di tempo non ho avuto il coraggio di suonare», dice Lee. «Sento che dentro di me c’è ancora musica e credo ci sia anche in Big Al, ma non abbiamo fretta».
Lee e Lifeson devono ancora accettare l’idea che i Rush siano finiti. «È tutto finito, vero? Fine della storia», dice Lee. «Sono orgoglioso di quel che abbiamo fatto assieme. Non so che cosa farò, musicalmente parlando. E sono certo che nemmeno Al lo sa. Non so se suoneremo ancora assieme, separati o che. Qualunque cosa succeda, la musica dei Rush è parte di noi e sempre lo sarà. Nel giusto contesto, tornerò a suonare quei pezzi. Ma allo stesso tempo non voglio scordare quel che abbiamo fatto assieme noi tre, con Neil».
Dopo l’ultimo concerto, al posto di schizzare via con la moto Peart è rimasto nell’arena. Per una volta, si è divertito a stare nel backstage. «Era entusiasta», ricorda Lee. Aveva finito il suo lavoro, era rimasto fedele ai suoi standard, non aveva mai tradito il sedicenne che era stato. Quando suonava era ancora al top.
«Sapeva di aver fatto un gran lavoro», dice Scannell, che quella sera era con lui. «Chi può negarlo?».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.