«Volevo essere capito come volevo io, volevo che la mia canzone bella, strana, anomala, patologica, arrivasse come quella di Baglioni. Per assimilare un pezzo come Come è profondo il mare non bisogna solo stare fermi ad ascoltare, bisogna lasciarsi prendere dal groove, per me è come se fosse un rap: volevo coinvolgere la gente e sconvolgere un po’ i princìpi dell’ascolto tipico della forma canzone. L’ho scritta in mezz’ora ed è stata la prima volta in cui ho pensato: ehi, posso comunicare qualcosa scrivendo».
Nel 2006 Lucio Dalla raccontava in questo modo i propri intenti e desideri di quando, per la prima volta, nel 1977, si ritrovò ad avere a che fare con il lavoro su un suo testo, dopo 13 anni di canzoni (il primo 45 giri era uscito nel 1964) in cui si era occupato di scrivere musiche affidando ad altri la parola. Lucio Dalla, insomma, non nasce cantautore, inizia a scrivere i propri testi solo per l’LP Come è profondo il mare, il settimo della sua carriera che è anche il primo – che nonostante i precedenti insuccessi potè scrivere grazie alla pazienza e all’amore nutrito per lui da alcuni discografici illuminati – con cui raggiungerà il successo. Fino a quel momento Dalla è un ragazzo che ama il jazz, che prima ancora è stato un bambino prodigio bravo a recitare, cantare, ballare, fare il prestigiatore, divertire, bravo a piacere alla gente insomma; l’amore per il jazz lo traghetta nella musica, studia il clarinetto da autodidatta ed entra da giovanissimo in una band bolognese di cui fa parte anche Pupi Avati che dopo anni dichiarerà di aver abbandonato il gruppo sentendosi troppo schiacciato dall’incredibile talento musicale di Dalla e di essersi dunque dedicato al cinema (questa storia trova spazio anche nella pellicola di Avati Ma quando arrivano le ragazze? del 2005).
Conosce Chet Baker e duetta con lui e altri grandi jazzisti come Bud Powell o Charles Mingus, è un ragazzo considerato brutto, senz’altro lontano dal canone del bello televisivo e da giornalino per le giovanissime, uno standard che quando Dalla passa, attraverso il beat, alla musica pop, rappresenta il canone del giovane cantante di sesso maschile che vende e intasa i juke box.
Dalla, da ragazzo, non piace più, è stato un bambino che piaceva a tutti ed è diventato un giovane uomo che sente di essere respinto dall’altro, un uomo che nella sua già ben salda solitudine sente progressivamente la necessità e infine trova un modo per avvicinarsi all’altro e farsi amare e voler bene a sua volta. Il suo altro è, anzitutto, il pubblico, a cui sempre più, nell’arco della sua carriera, si avvicina, si stringe in un abbraccio che inizia a rinsaldarsi proprio a partire dalla fine degli anni ’70, in coincidenza perfetta con l’istante discografico in cui Dalla decide di metterci la parola, la sua parola. Il mondo, improvvisamente, sembra ascoltarlo, capirlo, volerlo osservare e scoprire con occhi diversi, come a ricambiare esattamente il modo in cui si sente, da lui, osservato e scavato, scoperto, colto. Considerato uno strano tipo, Lucio Dalla diventa il cantante attento alle stranezze, il cantante delle stramberie del mondo, delle sue peculiarità, delle specificità di chi lo abita e in questo modo la sua canzone è straordinariamente aperta, inclusiva e dunque sempre più votata a farsi popolare nel tempo.
Il percorso di avvicinamento che Lucio Dalla compie nei confronti del pubblico, coincide dunque in qualche forma con il proprio avvicinamento alla propria parola, la legittimazione popolare dell’artista, qui, passa dunque dal momento cruciale in cui, oltre al corpo, alla forma, alla voce, al suono, Lucio Dalla in prima persona decide di legittimare la propria sostanza lirica, il proprio dire, esprimere, coincidendo dunque, in modo ancor più stretto, con il momento in cui offre tutto di sé all’altro da sé.
Quando, dopo il jazz e dopo l’iniziale fase beat dove Dalla sperimenta, a partire da un album eccezionale come Terra di Gaibola (1970), blues, prog, folk, decide di cambiare qualcosa nel suo lavoro, la sua casa discografica ingenuamente pensa si tratterà di un passaggio verso canzoni più semplici, diciamo più facili da intercettare dalle orecchie del pubblico all’ascolto; ma Dalla preferisce compiere il cambiamento opposto, e buttarsi a capofitto nella complessità. Sceglie di collaborare con un giornalista, libraio e poeta bolognese, di educare dunque la propria canzone, la propria composizione, alla poesia. Il poeta in questione è Roberto Roversi, con cui Dalla inciderà tre dischi fondamentali della sua carriera e della storia della canzone in lingua italiana: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976).
Nel 1977 Dalla dirà addio a Roversi e sarà dunque pronto a scrivere i testi dei suoi brani, a diventare, sebbene lui, come molti suoi colleghi, non amasse questa parola, il cantautore che oggi la maggioranza conosce, con un po’ di ritardo sulla diffusione della figura del cantautore com’era concepito – dal corpo alla parola – nella nostra nazione, quel tipo di cantautore, cioè, che lui non sarà mai. In altre parole, accade che nel momento in cui diventa formalmente ed effettivamente un autore delle proprie canzoni nel suono e nella parola, che Dalla, più che cantautore, diventa autore di canzoni pop.
I suoi dischi che vanno dal 1977 al 1980 e poi la lunga collaborazione con l’arrangiatore, produttore, musicista Mauro Malavasi che inizia nel 1983 proprio con il disco 1983 per arrivare al suo più grande successo di vendite, cioè Cambio (1990), vanno a costruire quella che è una sorta di figura ibrida, metà popstar e metà cantautore e che dunque, nonostante i grandi successi di pubblico – da Banana Repubblic con Francesco De Gregori al tormentone da remix Attenti al lupo fino all’opinabilissimo delirio-Caruso che ancora lo vede celebrato in queste ore a Sorrento tanto quanto nella sua Bologna – e nonostante la penna d’autore, non è mai né una né l’altra cosa, almeno secondo quello che, nella vulgata sono una e l’altra cosa.
L’ibrido Dalla è dunque una sorta di terza figura, terzo modello nell’immaginario storico del fare grandi canzoni italiane; non stupisce, dunque, che sia diventato, proprio negli ultimi dieci anni, cioè dopo la sua improvvisa scomparsa il primo marzo del 2012 a 69 anni soltanto, la figura musicale di riferimento, l’artista d’ispirazione e d’adorazione di tanta parte del nuovo pop italiano, cioè di quella generazione di cantautori nati per necessità discografica già ibridi, quelli cioè che come quelli di prima e più di prima rifiutano programmaticamente la definizione di “cantautore” pur andando a generare una nuova leva di cantautori e preferendo far parte di un genere formalmente altro, che abbiamo finito col chiamare itpop.
Un gran numero di itpopper, dunque, elegge Lucio Dalla come nome d’elezione a cui ispirarsi nel panorama del pop classico italiano e fa di più: non solo si affida a lui pensando al passato ma, con lui, anche tutto al suo più ampio universo artistico e ai frutti discografici di una sorta di factory fantasma che anziché starsene a New York aveva scelto l’Osteria da Vito a Bologna, dietro la via Paolo Fabbri di Francesco Guccini, come proprio quartier generale. È lì che Lucio Dalla creò infatti gli Stadio (i suoi Velvet Underground, le sue Stelle di Mario Schifano) e in cui lesse per la prima volta i testi di Luca Carboni aiutando di fatto il primo vero itpopper ante litteram a nascere e fiorire.
Non solo Dalla ha saputo musicalmente intercettare il sound a venire, da quel rap prima del rap di Come è profondo il mare di cui si diceva quassù, fino alla proto techno di pezzi come Washington o Liberi – aveva un debole dichiarato per la figura del dj – ma è riuscito a costruire, anche nella parola, una canzone aperta, in cui la risposta, il viaggio del fruitore, fosse centrale quanto se non assai di più della parola emessa, resa nota da chi la scrive.
In questo senso metà della canzone non solo è dell’ascoltatore ma è fatta per lui, costruita per lui, e dunque è per vocazione già pop. Una canzone fatta per incontrarsi, magari ballare, desiderarsi, magari amare, una canzone che faccia cioè quello che una canzone deve fare, ben prima di essere parola politica, voce di parte, espressione di schieramento. Una canzone per tutti, almeno in linea di principio, una canzone che non rinunci al gusto, all’evocazione e alla necessità del piacere.