La storia di Speranza, scrivevamo qualche settimana fa a proposito del suo disco, sembra davvero un film: nato da mamma francese e papà campano, è cresciuto in un quartiere-dormitorio in una delle aree più povere di Francia, Behren-lès-Forbach, al confine con la Germania. Dopo le scuole torna a Caserta, inizia a fare il muratore. Poi, nel 2017, pubblica su YouTube il video di Sparalo!, e nel giro di poco tempo diventa un rapper di culto. L’ultimo a morire, il suo disco d’esordio, esce quando ha 34 anni, nel 2020. L’ultimo a morire è anche il titolo del suo libro, pubblicato da Rizzoli e in libreria dal 17 novembre.
L’ultimo a morire è una biografia particolare: Speranza alterna prosa e versi e racconta senza nessun filtro una storia incredibile, un viaggio che dalle banlieu francesi arriva alla periferia campana. «Eravamo i rifiuti ignoranti, inconsapevoli, cui la società ci aveva condannati», dice Speranza. «Fare schifo era il nostro modo di respingere qualsiasi linguaggio familiare, di non appartenere a niente e nessuno».
In anteprima su Rolling Stone tre capitoli: Dipartimento 57: segregati in casa, in cui Speranza racconta l’infanzia nel rione di Behren; La Francia mi odia, io la stupro, sulle notti dei Mondiali e l’odio «tra francesi doc e francesi ghettizzati»; Furkan, sull’incontro con il compagno di scuola che diventerà il suo primo “produttore”: «Incido la mia prima cassetta. Sono già hardcore. Ma con una voce da bimbo».
DIPARTIMENTO 57: SEGREGATI IN CASA
A dodici anni ho già imparato tutto quel che mi serve per vivere in mezzo alla mia gente.
Nel rione avevo una comitiva di pregiudicati, sballati, drogati.
Miseria, povertà, ignoranza, droga.
Il quartiere era diviso in quattro zone: Behren 1, Behren 2, Behren 3 e Behren 4.
Io stavo nel quarto girone. Il più disagiato. Scale rotte. Gente che puzzava, ubriaconi. Gli uccelli volavano a pancia in su per non vedere la miseria.
Noi ragazzi ci volevamo bene, stavamo sempre in posti chiusi: il portone, la cantinetta, la roulotte abbandonata, le auto rotte o bruciate.
Nei portoni succedeva di tutto. Come al foro commerciale, che faceva sembrare il quartiere un suk arabo.
Tagliavo i pomeriggi con la mia gang di fannulloni. Sulle scale di un palazzo di fronte a quello in cui vivevo io. Perdevamo tempo stando lì a bere a fumare a spacciare. C’era un vecchio pazzo agli sgoccioli, una specie di istituzione alienata che se ne stava fisso con noi. Fumava come un disperato, bofonchiando parole incomprensibili con la voce bruciata. Gli scroccavamo le sigarette.
Finché un giorno non è più venuto.
Il capo era Amir, aveva qualche anno in più: noi dodici, tredici, lui diciotto circa. Vendeva il fumo.
È stato poi in seguito uno dei primi a introdurre la coca nel rione.
Circolava solo droga leggera. La mentalità diffusa era quella islamica che non ammetteva l’uso e la diffusione di roba più pesante, che infatti arrivò molto più tardi rispetto all’Italia. Chi si faceva di coca o eroina veniva picchiato selvaggiamente.
Al di fuori dell’hashish e dell’alcol non era ammesso nient’altro, no roba diabolica. Poi la droga pesante è entrata anche lì ma a quel punto io me n’ero già andato.
Quando ci spostavamo dal portone era per andarcene in giro a fare guai.
Andavamo nelle case dei vecchi a rubare. Distruggevamo e frugavamo dappertutto, tipo Arancia meccanica.
Le vittime preferite dopo gli anziani erano i tipi delle consegne: li assaltavamo e gli portavamo via tutto, motorino compreso. Le facce sudate, gli occhi strafatti dall’alcol e dalla droga. Se il malcapitato era francese, la dose di botte rincarava. Poi si beveva, parecchio, per festeggiare.
Partecipavo da spettatore, certe cattiverie non potevo condividerle. Ma dovevi dimostrare di essere pazzo anche tu per non farti mangiare.
Avevo amici che aspettavano che i vecchietti tornassero a casa per buttarli a terra e pigliargli i soldi. Un ragazzo un giorno era andato a derubare la propria nonna. L’aveva legata col filo del ferro da stiro e sotto i suoi occhi sgomenti le aveva portato via tutto quel che possedeva.
Io non lo accettavo, ma ero anestetizzato. E quelli restavano i miei amici. Non prendevo le distanze.
Loro si vantavano, io mi limitavo a sfotterli.
Il margine era il mio mondo e lo difendevo anche se sapevo che era sbagliato.
Vivevamo così, esaltati, con l’unico scopo di fare violenza e di misurare la nostra forza in questo modo. Una gara di follia per farti rispettare.
Tiravamo i sassi alla polizia quando passava, poi scappavamo. A volte gli sbirri scendevano dalla volante ed educatamente ci dicevano di smetterla che stavano solo facendo il loro lavoro. Ma noi ce ne fregavamo.
Poi succede una cosa.
Avevo dodici anni. Una volante costeggia il muretto dove stavamo noi ad annoiarci. Li aggrediamo verbalmente. Loro scendono dalla macchina. I miei amici riescono a scappare ma io no. Una mano mi afferra. Gli agenti mi infilano nella macchina e mi riempiono di botte e manganellate.
Lo spavento è così forte che da allora inizio a balbettare. Nessuno me lo ha mai fatto pesare. Ho imparato a considerarlo un tratto distintivo. Uno sfregio, una memoria animata, e anche un tocco di stile: come una presenza autonoma che affiora sul mio volto con un’espressione fissa. E alle donne piace: mi vedono come un essere indifeso.
LA FRANCIA MI ODIA, IO LA STUPRO
Ogni tanto ce ne andavamo in centro a sfogarci. La polizia ci teneva d’occhio perché doveva evitare che noi ghettizzati ci mescolassimo con i francesi doc. Il nemico era il francese che non ci considerava.
Di notte succedeva di tutto. Furti e risse gratuite, rapine nei supermercati.
Quando andavamo in centro provocavamo il francese usando un lessico pulito per prendere per il culo. Il nostro slang era molto forte, pesante, crudo.
Urlavamo per strada cose tipo: «Bruceremo il vostro paese».
Derubavamo i ragazzi bene alla luce del sole sfilandogli il cappello, la giacca, senza troppi complimenti.
Solo dopo anni ho imparato a non odiare la Francia e i francesi, a riconciliarmi con la mia dolce metà.
Ai Mondiali per la finale Francia-Italia mi ero fatto una maglia con su scritto: LA FRANCIA MI ODIA, IO LA STUPRO. Poi ho capito che stavo sviluppando un razzismo al contra- rio e mi sono dato una calmata.
Ma l’odio attira l’odio. E allora la percezione era che il francese ci odiava, e noi odiavamo lui. La “macchina poliziesca” incarnava ai nostri occhi l’eterno nemico. In Italia il poliziotto è misericordioso, in Francia zero.
Era in corso all’epoca una vera e propria guerra tra due mondi: tra francesi doc e francesi ghettizzati. E il nostro era il rione più sofferente e pericoloso di tuta la nazione. Tra il 2005 e il 2006 il conflitto si inasprisce. Compare Moloch, la Francia brucia. Ricordo che avevano chiuso i siti ai rapper per non farli parlare. Le rivolte erano all’ordine del giorno. La polizia non entrava mai. Quando ci riusciva lanciavamo piogge di pietre e molotov. Le cantine erano piene di bidoni di benzina.
FURKAN
Quando mi stufo di stare nel rione vado dal mio amico Furkan. È il periodo delle medie, Furkan è un mio compagno di scuola. Curdo, la sua famiglia ha un kebab e vive vicino al centro.
Il fratello di Furkan combatte in Kurdistan. Un giorno torna a casa con una gamba di legno perché era finito su una mina, e coi documenti falsi per sfuggire a una condanna a morte in Turchia. Passiamo ore ad ascoltare le sue storie macabre: ci racconta che avevano preso un pedofilo turco e lo avevano gettato in un fosso e ucciso a pietrate. Ci mostra la foto dei suoi compagni con in mano le teste mozzate dei nemici.
Stava nel PKK di Ocalan. In casa di Furkan c’erano alle pareti solo le immagini di Ocalan. A volte arrivavano altri curdi, che sembravano sbucati dal nulla.
Il padre, che aveva due mogli nella stessa casa, stava in questi giri di cui non parlava. Ma all’epoca ero molto curioso. Apprezzavo il comunismo a quei tempi ed ero attento a quel che succedeva in questi paesi.
Non facevo domande ma cercavo di capire e combinare gli elementi (pochi) che avevo. Li ascoltavo parlare fittamente nella loro lingua, studiavo i gesti e le espressioni dei loro volti.
Ma finiva che Furkan mi trascinava nella sua stanza. Era l’unico ad avere un computer e internet, e passavamo ore a scaricare basi rap. Diciamo che la mia musica nasce qui, in questo covo di rivoluzionari curdi.
Furkan mi stampava roba porno e basi rap, mentre ascoltavamo musica curda, soprattutto Ahmet Kaya.
Poi capisce come creare le basi, si appassiona, è bravo, e io ci scrivo sopra. Me le passa su floppy. Io che fino ad allora a casa ascoltavo solo cassette, riesco finalmente a procurarmi un computer. Poi trovo anche un microfono e comincio a registrare nella mia stanza. Scrivo roba tipo J’suis l’aigle des cités, le cauchemar des poulets!
Così incido la mia prima cassetta. Sono già hardcore ma con una voce da bimbo.
Ho undici anni. Io e Furkan fumiamo canne tutto il giorno e facciamo musica.