I 35 dollari che aveva in tasca quand’è arrivata a New York, Tamara de Lempicka, la lista per entrare in discoteca “no tu non ci sei”, Marilyn, le ballroom, i vestiti decorati da Keith Haring, le tette a punta, la mamma, Prince, la masturbazione, Basquiat, le croci, Michael Jackson, i figli, l’AIDS, e io, io, io. “All comes back to me”, dice del resto la canzone scelta per l’apertura, Nothing Really Matters, e se niente importa, allora importa tutto.
Questa è una celebration, lo dice il nome del tour, Madonna fa i conti col suo catalogo sterminato e confeziona una volta per tutte, e per davvero, il concerto della vita. E come si racconta una vita – una carriera – come la sua? Con l’accumulo, appunto, e però anche con l’omissione. Scegliendo un’angolazione per quello che oggi si dice storytelling, anzi mille angolazioni ricondotte e ridotte a una soltanto: sé stessa, e quel che di sé vuole dirci in questo momento, come ha sempre fatto.
C’è in ballo un film sulla sua vita, lo dirigerà lei stessa, ma intanto eccolo già qui, in uno show che è costruito come un musical, un recital, e prima di tutto un concerto pop classico, il genere che Madonna ha inventato, senza di lei non esisterebbero tutte le altre, tutti gli altri. La queen ancora detta legge, e lo si capisce appena prende la parola, rimproverando il pubblico italiano d’esser poco caldo (è vero: ma non capiscono l’inglese, signora) e l’aria condizionata del Forum troppo fredda. È un piccolo dettaglio che però dice quanto le deviazioni dal copione siano importanti quanto il copione stesso, granitico, cronometrato al secondo eppure morbido, time goes by so slowly, quando si ha così tanto da raccontare – e così bene.
Madonna ha inventato i concerti pop e ne ha inventato la grammatica, quel misto di baracconaggine ed eleganza (che però solo lei sa indovinare, anzi anticipare, così precisamente: a questo giro ancora di più), di ginnastica e retorica, di divertimento e pathos. Il Celebration Tour potrebbe essere la prova generale di future residency a Broadway, chissà, per quel modo che la sua host ha di piazzare storielle tra una canzone e l’altra, di invitare gli amici, lasciare che i figli facciano “un saggio di famiglia, ma con un grande budget” (cit. un amico), scorrazzare per il palco come se spicciasse casa. E però resta un concerto con gli act ben studiati, l’arco narrativo (scusate), l’iconografia classica continuamente riplasmata, di rimando in rimando – Live to Tell che scolora in Like a Prayer, Ray of Light che trova la controparte (meteoro)logica in Rain.
E ci sono i messaggi che ogni popstar non può esimersi dal mettere al centro del racconto: la donna che vince sempre, sul ring dell’amore (non sono impazzito dietro alle metafore: avviene sul palco così, letteralmente); quell’“as long as I know how to love, I know I’ll stay alive” lì di quella canzone lì, che vale più di mille comizi per parlare delle guerre in corso; la libertà, il no fear, le bandiere lgbtq+, tutto quello che Madonna è sempre stata, tutto quello che può permettersi di ripetere senza che sembri, come nel caso di tutti gli altri, un hashtag buono per un post su Instagram, e tanti saluti.
O mia bela Madunina torna in città dopo undici anni, e Milano si posiziona. “Ho un biglietto ma non so se vengo, forse lo cedo”, ci teneva a far sapere un’amica la mattina del giorno del concerto, “io anche mi sa che pacco, ho un po’ di febbre”, fa un altro, è il mi-si-nota-di-più-se della città che l’ha sempre amata ma non le vuole dar soddisfazione fino in fondo, è il costume locale. “Mah, ci ha un po’ deluso”, sentirò dire a due fan ingratissimi, però con sciarpetta del merch al collo, all’uscita, ma l’atmosfera generale ad Assago era spumeggiante, Madonna finalmente è tornata cool (altri ingratissimi l’avevano, negli ultimi anni, ridotta a povera vecchia sfigata: incredibile ma vero). Il concerto inizia con gran ritardo – anche questo è ormai parte della grammatica madonnara – perché, dicono, bisognava aspettare Donatella, che poi salirà sul palco per il numero di Vogue. È Milano all’ennesima potenza, una fashion week luccicante ma insieme scasciata come un ultimo drink in via Lecco, che è lo spirito di Madonna, anche se lei non ha idea di quello che sto dicendo.
Una celebrazione fatta di accumuli, dicevo, e di omissioni. Non c’è Frozen, se non nella veloce citazione dei corvi in un visual. Non c’è Music. Scelte che sembrano scriteriate ma che in fondo son giuste, è la Madonna di sempre e però di adesso, che in un comprensibile slancio di autofiction mette in scaletta la bondiana Die Another Day e pezzi che una volta erano B-side e son diventati culto non solo degli intenditori, Bad Girl (con la figlia Mercy James al pianoforte), Mother and Father, e sono alcuni dei momenti più belli – e pure commoventi – della serata.
Madonna non ha più niente da dimostrare e invece – per quell’ingratitudine di prima, che probabilmente è la forma più alta d’amore – le viene chiesto di dimostrare sempre di più, ancora, anche adesso che è in forma smagliante, canta, balla, recita col birignao di chi ha capito come interpretare sé stessa ora che è ancora quella di prima (i fantasmi della Ciccone passata che tiene accanto a sé in vari momenti, come fossero bambole che però non vuol far finire nella casa delle Barbie dismesse) e continua ad essere altro.
Ancora, di più, urlano tutti, da sempre, e lei sta al gioco, “I need your approval“, dice con un broncio d’attrice anni ’40 all’inizio, quando sente che il pubblico si deve ancora scaldare (non capiscono l’inglese, signora). Fa un concerto strepitoso – e uno dei suoi tour forse migliori di sempre – sapendo che domani le chiederanno conto di qualcos’altro, e va bene così, qualcos’altro farò, questo è il mio lavoro, questa è la mia vita, nothing really matters, tanto lo so, lo sapete, che all comes back to me.