Se siete mai stati a un concerto di Mary J. Blige, sapete che c’è sempre un momento dello show in cui si aprono letteralmente le dighe. Piange lei al microfono; piangono i fan sotto il palco; piangono i tecnici, la band, i fotografi, i giornalisti, la security. E non sono lacrime di coccodrillo: c’è più sincerità nella commozione di Mary e di chi la circonda che in buona parte della discografia delle sue contemporanee.
Per chi non conoscesse la sua storia – che poi è la storia di moltissime altre ragazze cresciute nelle case popolari di mezzo mondo, il che ha contribuito a renderla un’icona per chi ha un vissuto simile al suo – da bambina, in seguito al divorzio dei genitori, si trasferisce con la madre e la sorella a in uno squallido casermone per diseredati a Yonkers, New York. A 5 anni viene molestata da un amico di famiglia, e per tutta l’adolescenza deve difendersi da uomini violenti e altre situazioni potenzialmente letali, come testimonia la profonda e misteriosa cicatrice sotto l’occhio sinistro, che sembra il solco di una lacrima e che mostra orgogliosamente fin dall’inizio della sua carriera. Ha sempre amato cantare, e a 19 anni registra una cover di Anita Baker su una cassetta che dopo vari passaggi finisce nelle mani di Andre Harrell (a capo della Uptown Records e recentemente scomparso) e del suo stagista Puff Daddy (oggi noto come Diddy). È nata una stella.
Fin dal suo primo album, What’s the 411? del 1992, è chiaro che Mary J. Blige è arrivata per restare: scrive le sue canzoni, con testi intensi e vissuti in cui tutte le sue coetanee tormentate possono riconoscersi, e le canta con uno struggimento che solo chi ha conosciuto la vera disperazione può dimostrare. Ma qualcosa ancora non va, per lei: un disagio che emergerà pienamente solo con l’album successivo, My Life, e che Mary ha voluto raccontare a 25 anni dalla sua uscita nel documentario Mary J. Blige’s My Life, disponibile ora su Amazon Prime. Lei stessa lo definisce «il mio album più importante in assoluto» e per celebrarlo, oltre al documentario, prima della pandemia si è imbarcata in un tour americano di grande successo. C’è voluto molto tempo, però, per arrivare a questa consapevolezza. «Per anni non ho saputo godermi la fama e i miei risultati, perché dentro mi sentivo un disastro», racconta alle telecamere. «My Life è il mio album più oscuro, scritto in piena depressione, in un periodo in cui dovevo ancora decidere se volevo vivere o morire».
Con la produzione esecutiva di Diddy, la produzione musicale di Quincy Jones e la partecipazione di artisti del calibro di Nas, Method Man, Alicia Keys e molti altri, Mary J. Blige’s My Life narra il dietro le quinte non così scintillante di una cantante in piena ascesa. Tutti la riconoscono come il simbolo di una nuova generazione di donne afroamericane, che non si vergogna delle proprie origini e non prova a smussare gli angoli o a cambiare per piacere di più al pubblico bianco, e che orgogliosamente continua a lottare con i demoni del suo passato. Dopo la pubblicazione del primo album, spiega nel documentario, non ha il tempo di abituarsi al suo cambiamento di status, e si sente a disagio ovunque: nei quartieri popolari, che ormai non erano più casa sua, e ai party più esclusivi, che non sono mai stati il suo ambiente.
Per vincere l’imbarazzo beve e si droga, e cerca la compagnia di chi ha il suo stesso background e può capirla. Nello specifico, quella di K-Ci, membro dei Jodeci, gruppo R&B che ha fatto la storia degli anni ’90. Un amore travolgente, ma estremamente violento, sia a livello fisico che psicologico. Nel documentario c’è una scena che strazia il cuore: Mary ha da poco annunciato il suo fidanzamento con K-Ci ed è ospite di una trasmissione tv. La presentatrice le mostra in diretta un breve estratto dell’intervista dei Jodeci di qualche settimana prima. «È vero che presto tu e Mary J. Blige vi sposerete?», chiede a K-Ci. Lui ride e agita la mano davanti alla faccia, come a liquidare quella sciocchezza. «È solo gossip. Il vostro K-Ci non si sposerà mai, sappiatelo». Le telecamere inquadrano implacabili il volto di Mary che ascolta il suo uomo negare il loro legame, il dolore nei suoi occhi. Dopo un breve secondo di silenzio, mentre la presentatrice continua a incalzarla, lei risponde triste: «Per favore, lasciamo perdere e andiamo avanti».
Scritto all’apice dei suoi problemi personali e con K-Ci, per la cantante «My Life è un grido d’aiuto: ogni canzone ha un sottotesto chiaro, “per favore, stai con me, non lasciarmi”». Per una buona metà delle canzoni, la registrazione finisce con un pianto disperato in studio. Il rapporto con K-Ci la porta solo ad alimentare la depressione, i pensieri suicidi, l’abuso di alcol e droga, ma lei è troppo debole e insicura per lasciarlo. L’unico raggio di sole, letteralmente e in senso figurato, arriva dalla title track, My Life, che contiene un omaggio a Everybody Loves the Sunshine, un classico del soul di Roy Ayers. «Quella canzone la ascoltavo da bambina, mi dava speranza e gioia». E non a caso, il testo di My Life è un auspicio per il futuro: «Quando ti senti giù non devi mai fingere / Di’ quello che ti passa per la testa / E con il tempo scoprirai / Che tutte le energie negative spariranno».
Quella nota di speranza si riflette oggi negli incontri di Mary J. Blige con i fan, abbondantemente presenti nel documentario: molti di loro, quando hanno la possibilità di trovarsi faccia a faccia con lei, si commuovono, la abbracciano, la ringraziano di aver dato voce alla loro stessa disperazione e alle esperienze per cui non trovavano le parole. Una ragazza le dice addirittura che la voce di Mary le ha salvato la vita: stava per buttarsi dalla finestra, quando ha ascoltato una sua canzone e ha deciso di non farlo. «Con il pubblico è uno scambio di energie continuo, sono loro che mi hanno dato la forza di arrivare fin qui. È come se mi dicessero continuamente “È successo anche a me, Mary. Non sei sola”. E il bello della tristezza è che, quando l’hai finalmente superata, ti rende felice di avercela fatta».
Per chi fosse curioso di com’è andata a finire: dopo My Life, Mary J. Blige negli anni ’90 ha pubblicato altri due album, Share My World e Mary, per certi versi ancora più oscuri e tristi, e sempre influenzati dalla sua relazione tira-e-molla con K-Ci. Nel 2001, finalmente sobria e libera da quel rapporto tossico, cambia decisamente registro con l’album No More Drama, praticamente una dichiarazione d’intenti, che l’ha resa una superstar internazionale. Da allora, con alti e bassi, ha inciso un’altra decina di album e non è mai più tornata alla disperazione di prima, anche se continua a cantare lo struggimento dei sentimenti di tutte noi ragazze sensibili attirate da uomini sbagliati. La carriera di K-Ci si è praticamente arenata, e quasi nessuno ormai ricorda il suo nome.