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Milva, l’internazionale

La 'pantera di Goro' è riuscita in un'impresa rara: quella di diventare icona fuori dalla nazione, coltivando un repertorio colto e mai banale, senza però dimenticare i successi di pubblico. Ecco come

Milva, l’internazionale

Foto: Pool DUFOUR/THOMAS/Gamma-Rapho via Getty Images

Tra le grandi cantanti italiane cui generalmente viene associata come parte di una sorta di fortunato branco femminile di grandi ugole animalesche arrivate tutte dalla provincia italiana (lei, lo sappiamo, era la Pantera di Goro), Milva è stata quella meno provinciale di tutte: se gara, infatti, tra le incredibili, c’è stata mai davvero, l’oggetto del contendere andrebbe ricercato non tanto nella forza e nell’estensione delle loro voci ma in quella dei loro immaginari d’ispirazione e, a seguire, della percezione e dell’influenza su larga scala delle loro interpretazioni.

In questo senso, Milva, è stata imbattibile: dalle balere della bassa padana, dove cantava fin da giovanissima facendosi chiamare Sabrina, ha a tutti gli effetti conquistato il mondo, i suoi 173 album (tra dischi in studio, live e raccolte) includono uscite in svariate lingue sul mercato di Italia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Sudamerica, Grecia, Spagna. Una ancora più moderna della già moderna Piaf o, per essere ancora più precisi, una sorta di Ute Lemper italiana, Milva ha preso la provincia e passando da una vitalità artistica strettamente connessa a un’antica forma di meneghinità (cristallizzata negli ultimi anni in questa immagine di lei, ormai anziana, elegantemente in ritirata nella sua casa situata in una delle vie più suggestive della città, via Serbelloni, in pieno Quadrilatero del Silenzio) si è gettata nel mondo.

La sua figura artistica si è quindi dotata di una forza nient’affatto comune per gli artisti italiani: quella di chi sa sconfinare e diventare icona fuori dalla nazione. Non sono tanto i titoli e le onoreficenze ricevuti, che sono svariati e che pure certamente contano, a raccontarci il livello di internazionalità raggiunto dal lavoro di Milva, ma la sua capacità di penetrare profondamente le culture che poi restituiva nelle sue interpretazioni. In questo senso il rapporto con la cultura tedesca, in particolare con una certa opera musicale, teatrale e letteraria, esemplificata al meglio dall’opera teatrale di Brecht inclusa nel repertorio della cantante anche grazie all’incontro fondamentale con Giorgio Strehler all’inizio dei Settanta (da Milva canta Brecht del ’71 alla sua interpretazione di Jenny dei Pirati nell’allestimento dell’Opera da tre soldi del ’73), è centrale, al punto che Milva diventerà un’esemplare cantante di lied capace di impressionare e stupire persino lo stesso pubblico tedesco.

Milva Jenny dei pirati Opera da tre soldi 1972 73


Per Milva l’interpretazione è stata costantemente il frutto di una brillante consapevolezza dei livelli culturali acclusi all’oggetto interpretato, al punto che il suo è stato un rapporto profondamente intellettuale non solo con quanto cantato ma con il modo stesso di cantarlo, non solo con la sostanza ma anche con la forma che quella sostanza – e qui il caso del lied è lampante e preciso – richiede. L’internazionalità di Milva, dunque, non ha avuto solo a che fare con quello sconfinamento di cui dicevamo poc’anzi ma con la scelta stessa, programmatica, di compierlo: non si è insomma cercato il successo fuori dai confini ma la cultura cui dar voce oltre i confini. In questo senso potremmo dire che l’icona Milva è stata capace di rappresentare come pochi altri artisti in questo paese un approccio alla materia d’arte profondamente novecentesco, capace cioè di inabissarsi nelle correnti artistiche e nelle forme con una modalità fortemente interculturale di individuare i punti cardinali della cultura europea.

Novecentesco per multiformità – e altresì illuminato – è stato anche il suo modo di gestire l’intenzione artistica e le eventuali etichette a essa connesse: la sua capacità di svincolarsi dai doveri del successo, dalle formule e dalle imposizioni di mode e discografia è stata esemplare, al punto da permetterle di costruire una carriera sdoppiata, divisa in due mondi: d’accordo con la sua casa discografica, la Ricordi, a Milva è stato infatti concesso di dedicarsi al repertorio colto, alla canzone di estrazione teatrale, al lied e a una canzone impegnata in termini anche politici, a patto di presentarsi ogni anno al Festival di Sanremo e di garantire regolari ‘successi di pubblico’ e non soltanto applausi da parte della critica.

Ecco che questo doppio fuoco, dunque, è alla base della quantità di diversissimi prodotti musicali e interpretazioni offerti dalla cantante, quella quantità che è però soprattutto smaccata possibilità di spaziare e muoversi anche contemporanemente, come in parallelo, su binari diversissimi: da un lato il Piccolo, Strehler, Grassi, Brecht ma dall’altro brani pop che sono in casi estremi puro divertissement: dall’interpretazione letterale di una ricetta del vitello in salsa di acciughe eseguita in Rai con Iva Zanicchi nel 1965 all’italo disco, vent’anni dopo, di Marinero, dal disco Corpo a corpo, del 1985 (memorabile l’esibizione con corpo di ballo a Domenica In).



Questo doppio binario da percorrere, d’altronde, sembra già una (doppia) strada incisa nella voce stessa della cantante: Ennio Morricone, nella sua dedica sul magnifico Dedicato a Milva da Ennio Morricone (1972) ha spiegato in termini quasi scientifici la doppia vocazione di Milva già come elemento intrinseco nella sua voce, che definisce popolaresca nella tensione e raffinata, poi, nell’interpretazione. L’elemento popolaresco di Milva ha trovato spazio, soprattutto, nella sua interpretazione di canzoni della tradizione, canzone popolare che nasce o diventa politica e civile: da Bella Ciao alla Filanda – il suo successo straordinario del 1976, adattamento di un brano eseguito da Amalia Rodrigues, É ou não é di Alberto Janes, diventato in italiano canto d’amor politico di stampo femminista, eccezionale per efficacia tanto in termini di scrittura che di interpretazione (poi uscito in tedesco col titolo Die Liebe auf den ersten Blick).

Milva - La filanda


Un unico spazio artistico è dedicato alla convergenza del percorso colto e di quello pop di Milva su un unico binario e si tratta di quello generato dal fortunatissimo incontro con Franco Battiato sul nascere degli anni ’80: mentre il suo lavoro si muovava dalla collaborazione con Luciano Berio a quella con Andrea Zanzotto, dalla Scala di Milano al théâtre du Châtelet di Parigi e di contro dal varietà televisivo Palcoscenico con Oreste Lionello e Heather Parisi, l’incontro con Battiato è riuscito a unire i puntini come neppure quello con Jannacci, suo alter ego maschile e autore per lei dell’incredibile album La Rossa del 1980, era riuscito prima. Battiato è infatti la perfetta crasi tra i due mondi, quello pop e quello colto, essendo lui stesso, in prima persona, incarnazione delle due attitudini unite in un morphing musicale insieme capace di oscillare dalle vendite commerciali da capogiro alle sperimentazioni più impervie. Il sodalizio è iniziato nel 1981 e ha dato vita, come risultato di questa perfetta equazione di approcci, a quello che è il più grande successo commerciale di Milva: l’LP Milva e dintorni, primo di una trilogia realizzata con Battiato e Giusto Pio. Il brano Alexander Platz, scritto per lei, è diventato immediatamente un cavallo di battaglia, un successo intercontinentale riproposto live e inciso in varie raccolte in Italia, Germania e Giappone (anche inciso in tedesco, con il titolo Menschen an der Macht).



Figlio del sodalizio con Battiato è anche l’ultimo album inciso da Milva, anno 2010: Non conosco nessun Patrizio con cui è arrivato anche l’addio alle scene, uno dei più eleganti mai pronunciati, anche questa volta su scala internazionale: «Ritengo che proprio questa speciale combinazione di capacità, versatilità e passione sia stato il mio dono più prezioso e memorabile al pubblico e alla musica che ho interpretato e per quello voglio essere ricordata. Oggi questa magica e difficile combinazione forse non mi è più accessibile: per questo, dato qualche
sbalzo di pressione, una sciatalgia a volte assai dolorosa, qualche affanno metabolico; e, soprattutto, dati gli inevitabili veli che l’età dispiega sia sulle corde vocali sia sulla prontezza di riflessi, l’energia e la capacità di resistenza e di fatica, ho deciso di abbandonare definitivamente le scene e fare un passo indietro in direzione della sala d’incisione, da dove posso continuare ad offrire ancora un contributo pregevole e sofisticato».

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