Mina, un po’ lo immaginiamo e invece un po’ lo sappiamo, ascolta migliaia di canzoni all’anno e ne riceve il triplo da autori di ogni sorta, in buona sostanza è facile pensarla lì, in silenzio stampa da quarant’anni, a fare quasi esclusivamente quello che molti di noi sognano di fare dal mattino alla sera: ascoltare musica. I suoi dischi sono da tempo un incrocio di mondi e sguardi raccolti e abilissimamente selezionati tra i brani ricevuti, ma è proprio il caso di dire che erano anni che Mina non faceva un disco così.
I motivi sono due e sono semplici da indovinare. Il primo è che questo Mina Fossati, presentato ieri sera in anteprima alla stampa alla Sala Puccini del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano con una dotazione di cuffie per ognuno dei presenti tale da trasformare la sala in un intimo luogo d’ascolto collettivo, è un corpus unico scritto da un unico autore. Il secondo è che questo autore è quasi certamente uno (o uno dei due) più grandi autori di canzoni italiane viventi. Era dal 1997, e lo racconta Fossati in persona nella sua mezzora di incontro con i giornalisti, che lui e Mina avevano in testa questo disco insieme, qualcosa nella gestione discografica, allora, non funzionò, ma mentre Fossati, disco dopo disco, proseguiva col proprio passo e progettava lentamente la sua successiva uscita di scena, Mina, che da quella scena era già uscita da un pezzo, non ha mai smesso di pensare a quel progetto.
Nel frattempo Fossati, tra il 2011 e il 2012, si ritira e a sette anni dal ritiro viene poi a scoprire di quel pensierino a due voci e quattro mani ancora vivo nei desideri di Mina. Ci riflette un attimo, passeggia verso casa con leggera titubanza e una volta arrivato ne parla a sua moglie: «lei mi ha detto che se avessi detto di no a Mina avrebbe chiesto il divorzio». Et voilà. Fossati, nell’arco della serata, lo sottolinea in più momenti, in modi più e meno espliciti. «Mai al mondo mi sarei negato il piacere di lavorare con Mina, sarei stato un folle» e camminando in piedi in giubbotto di jeans da un estremo all’altro del palco, guarda la platea visibilmente emozionato dal pur breve ritorno in pista e prosegue: «Mina è una persona splendida, gentile, speciale ma voglio soprattutto dirvi una cosa: quando si pensa a lei si pensa a una grande cantante, alla più grande tra le cantanti, ma bisognerebbe parlare d’altro, bisognerebbe sottolineare come lei sia piuttosto una grande musicista». E rincara: «musicista qui vuol dire avere un pensiero: tutto quello che Mina canta, ogni nota che esce dalla sua bocca, è il frutto di un pensiero».
E questo disco, pure, è frutto di un pensiero, anzi, di pensieri, allineati in modo millimetrico, un pensiero vasto o per dirlo con un po’ di precisione in più, un pensiero cosmico, come da sempre ci ha abituati Fossati, nella continua sua danza d’autore tra lo spazio del privato e quello del grande mondo, tra quello del letto sfatto e del taglio di luna, dello scambio privato con l’altro da sé e quel “fratello che guardi il mondo” che è invece di tutto il pianeta. Anche questi testi tradiscono questo doppio d’intenti trasparenti che, in questo caso, incrocia un altro doppio ancora, quello della scrittura, che naturalmente qui è per due e impone di non dimenticare mai che si tratta di un disco che viaggia su due binari e che questi due binari e queste due voci devono continuamente non solo incontrarsi, ma stringersi l’un l’altra e procedere insieme, cedersi il passo, dare una all’altra la forza.
«Spesso mi ritrovavo a incidere di nuovo la mia voce dopo aver sentito la registrazione di Mina, non è che fosse una gara, è chiaro, ma sentire lei mi spingeva continuamente a migliorarmi», sottolinea Fossati. «Io inoltre ho bisogno di molte sillabe brevi e di note brevi, di una maggiore concentrazione di parole dunque, lei invece al contrario ha bisogno di note lunghe e di meno sillabe: la mia sfida è stata lavorare sui concetti per renderglieli più cantabili. Lei non ha preteso niente, ha un rispetto totale della mia scrittura, ma io volevo fare nel migliore dei modi, a costo di star sveglio due notti ad abbreviare qualche verso per riuscire a non modificare il senso di un passaggio cruciale di una canzone».
C’è grande precisione in Mina Fossati, che si presenta alle orecchie dell’ascoltatore certamente come un mix di arrangiamenti (sempre tutti a cura di Massimiliano Pani, qui non figlio di Mina, ma da anni suo sodale e arrangiatore, appunto) e di sonorità e mondi musicali di riferimento diversi, dalle grandi ballate classiche fossatiane, a giochi pucciniani di ricorsa della melodia (archi di Celso Valli da annali) o scherzi di parole e suoni che rimandano alla leggerezza apparente degli anni ’60 di Mina, passando per l’R&B e per quel rockeggiare da banda che suona, appunto, il rock, che salta fuori a grande sorpresa ogni tanto.
Tuttavia, ciò che conta, qui, non è tanto una veloce somma delle parti, la solita radiografia rapida di un pezzo e dell’altro, visto che ci troviamo di fronte a uno di quei rari casi in cui l’unica cosa che chiariscono gli ascolti preliminari è questo ancora più raro essere nelle mani di un disco nato per farsi ascoltare, decifrare, comprendere e apprezzare con la lentezza necessitata solo dalle grandi opere. Ciò che conta allora è il tutto che questo disco solleva: un album in cui Mina e Fossati fanno, a due voci, un tutt’uno, perché qui Fossati, sotto esplicita richiesta preventiva della compagna d’avventura, non solo scrive ma canta e lo fa reggendo più che perfettamente il confronto con lei. Uno stato di grazie sensazionale, il suo, su tutta la linea, dalla penna al diaframma.
Questo tutt’uno, però, specialmente, è di intenti: siamo di fronte a un disco sulla contemporaneità, come precisa Fossati «sul qui e ora, perché con le nostre ritirate io e Mina abbiamo in comune questa forma di disinteresse per il passato e questo istinto naturale verso il futuro, questo esaltarci al pensiero di un progetto, di qualcosa che sarà, di qualcosa che non sappiamo ancora come finirà». E questo pensiero non è solo la matrice del disco ma ne è soprattutto la materia, il tema centrale, lo snodo principe: niente è perduto, niente è immobile, niente è detto. Fossati, in questo, è da sempre un campione e dunque i suoi testi della maturità non sono mai vecchi e stupiscono, piuttosto, per la freschezza dello sguardo e delle intenzioni, guardano sempre un po’ più in là, slanciati nel futuro, mai schiavi del vezzoso e sciocco dirsi “il meglio è passato”. Il meglio, forse, deve arrivare, lo sottolinea l’autore in uno dei primi versi e atti di speranza del pezzo-manifesto in apertura all’album, L’infinito di stelle: “Per la strada di nuovo / la pioggia è passata / e una luce si muove per me / C’è ancora speranza / In questa terra / Civilizzata soprattutto dai poeti”.
E di speranza, e infinita vitalità, Mina Fossati è ricchissimo, anche e specialmente quando si parla d’amore. «La verità è che io ho solo parlato tanto con le donne, non solo le mie, tutte, ma per il resto alla mia età ne scrivo ancora ma ancora non ci ho capito proprio niente». Non ci avrà capito niente, ma ancora una volta è nell’amore che quello snodo della speranza e della vitalità e del futuro trova non tanto il piacere della risoluzione ma della corsa eterna, senza fine, perché per l’autore Fossati la risoluzione non esiste ma esiste, piuttosto, l’affanno magico che volge al domani, di cui, questo lavoro, tra eros e anima, straripa.