Quando nel 1978 Tom Robinson cantava Glad to Be Gay, lo faceva come una sorta di lamento funebre – l’ironia, per quanto confortante, era evidente. Sei anni più tardi, il cantante e autore dei testi degli Smiths – un uomo chiamato Morrissey – non sa bene che farsene del tono ironico. I suoi ricordi di rifiuto eterosessuale e isolamento omosessuale appaiono troppo dolorosi e persistenti per essere affrontati in un modo obliquo. Le canzoni di Morrissey sondano lo strazio quotidiano di un mondo che sembra fatto apposta per indurre in tentazione i gay, ma la sua amarezza e perplessità saranno familiari a chi ha mai cercato una connessione sociale senza il compromesso personale. Che stia evocando la confusione di precoci incontri eterosessuali (“I’m not the man you think I am”), o la realtà a volte crudele della scena gay, Morrissey espone la sua vita come una scatola da scarpe piena di fotografie sbiadite.
A fronte dell’atteggiamento poetico piuttosto cupo di Morrissey, sorprende come The Smiths sia un disco caldo e divertente. Per quanto la voce di Morrissey – una litania spesso monocorde capace di tramutarsi senza preavviso in un inquietante falsetto – richieda un po’ per essere assimilata, l’accostamento con la delicata, tintinnante chitarra di Johnny Marr rende l’insieme affascinante. E queste undici canzoni sono ritmicamente così insinuanti che l’ascoltatore motivato si troverà, senza accorgersene, del tutto conquistato. Da What Difference Does It Make?, l’astuto recupero di un venerabile riff garage-punk, fino al potente pezzo d’apertura Reel Around the Fountain, alle hit Hand in Glove e This Charming Man, questo disco ripaga a ogni ascolto.