A Toys Orchestra: «Il nostro album libero come il "Butterfly Effect"» | Rolling Stone Italia
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A Toys Orchestra: «Il nostro album libero come il “Butterfly Effect”»

Esce il nuovo lavoro della band campana: più elettronico e con alcuni brani più ariosi e ballabili rispetto al passato. Ma, racconta il cantante Enzo Moretto: «Dal punto di vista dei testi è forse il più triste di tutti»

A Toys Orchestra

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«Il nostro sogno è affermarci all’estero». Enzo Moretto, il cantante degli A Toys Orchestra, non ci gira intorno: con il nuovo disco Butterfly Effect, in uscita il 13 ottobre, lui e la sua band vorrebbero ritagliarsi uno spicchio di notorietà fuori dall’Italia. E per tentare di realizzare questo desiderio il primo passo è stato volare a Berlino e rinchiudersi per due mesi al Vox-Ton Studio con Jeremy Glover, già al mixer per Liars e Crystal Castles, e un nuovo compagno di viaggio, il polistrumentista Julian Barrett, che si unirà agli A Toys Orchestra anche nel tour che inizierà a novembre (ma intanto segnatevi lo showcase del 14 ottobre in Santeria a Milano).

Il risultato è un buon disco che spinge più che in passato sulla componente elettronica, con brani più stratificati, costruiti su tappeti ritmici e crescendo, come la bella Take My Place, e altri più ballabili, ariosi, come Fall To Restart e Always I’m Wrong, traccia scelta dal gruppo come singolo di lancio «per provocazione», spiega Moretto.

In che senso per provocazione?
Nel senso che non abbiamo mai puntato su singoli così sbarazzini, senza contare che non è nemmeno la canzone più rappresentativa del disco.

Però non c’è un tono dominante in questo album, ci ho trovato più colori, più sfumature.
Sì, ed è strano, perché dal punto di vista dei testi è forse il nostro album più triste, tocca temi importanti, grevi. Ho esplorato il lato scuro dell’animo umano, le sensazioni, i sentimenti, ma di contrasto le forme di costruzione dei brani sono più quadrate, le canzoni sono spesso costruite su pochi accordi che poggiano su strutture dinamiche, ritmi incalzanti. Alla base c’è anche un metodo compositivo per me nuovo.

Cioè?
Di solito parto buttando giù i pezzi con chitarra e voce o pianoforte e voce; questa volta ho voluto fare una sorta di esperimento. Sono comunque partito dalla forma acustica, ma poi ho riscritto i brani sotto forma di bozze con dei macchinari elettronici, per la precisione con un Electribe, che è uno strumento da deejay. Solo successivamente ci abbiamo lavorato su, io e gli altri della band.

Rispetto al precedente Midnight (R)Evolution il cambio di rotta è notevole.
Anziché ripercorrere la stessa strada abbiamo preferito rimescolare le carte e reinventarci. Che poi è quello che facciamo sempre, anche se alla fine siamo sempre noi, gli ingredienti sono quelli, cambiano solo le dosi. In questo caso abbiamo invertito alcuni piani sonori, togliendo l’evidenza a strumenti che un tempo sono stati in primo piano per dare spazio ad altri. La componente elettronica, già usata in passato, ma più per gli arrangiamenti, qui è diventata un elemento centrale, sfruttato in modo funzionale, per dare il giusto pathos alle canzoni.

Avevate già lavorato con un produttore straniero, Dustin O’Halloran, per Technicolor Dreams, ma è la prima volta che registrate all’estero: che esperienza è stata?
Bella, perché all’estero c’è una libertà maggiore, c’è una gran voglia di sperimentare non fine a se stessa. Volevamo che questo disco non avesse nulla d’italiano, per questo siamo andati a Berlino. So che può sembrare brutto detto così, però siamo una band esterofila, cantiamo in inglese e da tempo ormai cerchiamo di farci notare fuori dai confini, quindi abbiamo deciso di provarci con i piedi sul “terreno di conquista”, per così dire. Anche per staccarci dal nostro rifugio, da quel senso di protezione che ci dà l’Italia. Poi, chissà, magari un giorno ce ne andremo per sempre, ci abbiamo pensato, ma è ancora presto.

Per ora vivete a Bologna, riuscite a vivere di musica?
Sì, anche grazie al fatto che ci siamo trasferiti qui lasciando la Campania: questo ha reso tutto più agevole sotto il profilo logistico. Ma è pur vero che quando non siamo in tour è difficile far quadrare i conti.

Voi e il van su e giù per l’Italia: ve ne saranno successe di tutti i colori.
Beh, parecchie. Una volta siamo stati fermati dalla polizia al casello dell’autostrada perché senza saperlo avevamo pagato con soldi falsi, qualcuno ci aveva fatto lo scherzetto di rifilarceli: ci hanno portati in caserma, smontato il furgone, ci hanno perquisito… Un’altra volta un locale ci ha messo a dormire in quello che ci era stato millantato come un albergo, ma che in realtà era un rudere senza finestre: figurati che avevamo due letti per otto persone!

Due settimane fa si è tenuto il Meeting delle Etichette Indipendenti, gli organizzatori hanno detto che la discografia indipendente è in ginocchio. Voi vi sentite parte di quel mondo?
Sì, non ho problemi a rivendicare che gli A Toys Orchestra appartengono al mercato indipendente, o underground se preferisci, perché di fatto non siamo legati a una multinazionale. Se, invece, parliamo di musica, di suoni, “indipendente” è un termine ambiguo, un oggetto misterioso. Quel che noto è un fuggi fuggi nei confronti del cosiddetto mondo indie che mi fa sorridere, perché quelli che oggi scappano sono gli stessi che tempo fa hanno fatto di tutto per salire sul carrozzone.

cover toys definitiva

Un accenno alla copertina: me la racconti?
L’idea era di tradurre in immagine il concetto del “butterfly effect” che sta alla base del disco, concetto legato al caos, a qualcosa di libero, non inquadrabile. Così mi sono venute in mente le macchie di Rorschach usate dagli psichiatri, ne volevo una che ricordasse la forma della farfalla e che al tempo stesso richiamasse l’idea del caos. Mi sono rivolto a Roberto Amoroso, che aveva già curato l’artwork di Technicolor Dreams, gliene ho parlato ed è venuta fuori questa cover. Tu cosa ci vedi?

Come prima cosa ho visto un uomo incappucciato, poi altre figure. E tu?
La cosa divertente è che io la prima volta che l’ho guardata ci ho visto un animale tipo bue che, però, non c’era da nessuna parte! Ma è così, ognuno può vederci dentro qualcosa di diverso.