Adam Duritz, voce dei Counting Crows: «Noi, arrabbiati tanto quanto i Nirvana» | Rolling Stone Italia
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Adam Duritz (Counting Crows): «Noi, arrabbiati quanto i Nirvana»

La band che negli anni '90 rappresentava l'alternativa al grunge arriva in Italia: il 22 novembre a Padova e il 23 a Milano. Parla Adam, il cantante

Counting Crows, Foto di Danny Clinch

Counting Crows, Foto di Danny Clinch

Dall’uscita di Saturday Nights & Sunday Mornings, penultimo album in studio dei Counting Crows, e la pubblicazione di Somewhere Under Wonderland, il nuovo lavoro che la band presenterà il 22 e 23 novembre a Padova e Milano, sono trascorsi sei anni. Parecchio tempo, considerati i ritmi frenetici del mercato discografico, ma Adam Duritz, leader del gruppo americano, spiega di essere stato impegnato in altro: «Un musical, Black Sun di Stephen Belber, bravo sceneggiatore di Broadway». «Un’esperienza interessante», la definisce il cantante dei Counting Crows, band che negli anni 90, sulla scia dell’hit Mr. Jones, fece da contraltare al grunge di Seattle con un rock di stampo più classico. «Per la prima volta in vita mia mi sono ritrovato a scrivere canzoni per altri e non su di me», racconta Duritz, 50 anni. «È stato stimolante e non volevo avere il dubbio sull’utilizzo dei brani, della serie “questo pezzo lo tengo per il musical o per i Counting Crows?”. Perciò ho preferito fare una cosa alla volta».

Non vi siete fermati del tutto, però: avete inciso Underwater Sunshine, raccolta di cover, e continuato a suonare dal vivo.
Vero, siamo sempre stati in tour e devo dire che dopo l’uscita di Underwater Sunshine i concerti sono diventati via via più coinvolgenti. Proporre canzoni di altri ci ha aiutato a migliorarci facendoci venire una gran voglia di metterci al lavoro su del nuovo materiale.

Il risultato è Somewhere Under Wonderland: qual è il paese delle meraviglie del titolo?
Quando mi sono trasferito a Los Angeles, vent’anni fa, dopo l’uscita del nostro primo disco, sono andato a vivere a Hollywood e a due isolati da casa mia c’era una strada che affacciava sul Laurel Canyon, un posto così bello che quando mi chiedevano “dove vivi?” rispondevo “a due passi dal paese delle meraviglie”. Questa frase mi è girata per la testa per anni, quello è anche il luogo dove Neil Young, Crosby Stills & Nash hanno registrato negli anni 60 e 70, anche Joni Mitchell viveva lì, è lì che ha scritto il suo album d’esordio. Insomma, il titolo si riferisce a quel posto magico e molto, molto cool!

Parlando dei tuoi testi, un tema centrale è sempre stato quello della follia.
Beh, perché la malattia mentale fa parte della mia vita e scrivendo brani autobiografici è naturale per me affrontare l’argomento.

Hai detto di soffrire di disturbo dissociativo.
Una cosa che mi spaventa, mi fa paura, ma almeno so che non mi può uccidere. Forse non posso avere una vita normale, ma posso comunque avere una vita. Ho sempre pensato che essere un songwriter significasse catturare le sensazioni e tradurle in canzoni, in storie. Questa sorta di autobiografia in musica scaturita in tanti anni con i Counting Crows, però, si stava trasformando in qualcosa di limitante per me, e questo l’ho capito lavorando sul musical. Così è nata, per esempio, la traccia Elvis Went to Hollywood.

Ossia?
Quel brano è frutto di una constatazione: negli ultimi anni ho notato che molti ricorrono all’espressione “declino della civiltà” quando discutono di qualcosa che non gli piace, per esempio di Twitter o cose simili. Lo trovo assurdo, c’è chi ha usato quell’espressione persino parlando del debutto di Elvis Presley nel cinema. Beh, io credo che il declino della civiltà sia avvenuto in altri momenti, che so, quando gli unni hanno invaso Roma e distrutto tutto commettendo stupri e assassini. Così, per scherzare, mi sono chiesto: “E se la metamorfosi di Elvis in attore di Hollywood avesse avuto conseguenze peggiori? Se avesse causato un’invasione di alieni?”. È iniziato come un gioco, ma gli altri del gruppo hanno avuto delle reazioni così forti che ho cominciato a prendere quest’idea sul serio e ci ho scritto una canzone.

Hai detto che per te il palco è un rifugio, lo pensi ancora?
Sì, mi sento meglio sul palco che altrove, ci sono situazioni che mi fanno sentire molto meno a mio agio.

Anche nell’industria musicale c’è qualcosa che ti fa sentire fuori posto?
No, quello no, come Counting Crows siamo sempre stati liberi di fare ciò che volevamo dal punto di vista creativo. Prima che pubblicassimo August and Everything After, il nostro album d’esordio, si era scatenata per noi una lotta tra etichette, in gioco c’erano milioni di dollari. Ci portammo a casa tremila dollari ciascuno, poco rispetto a ciò che avremmo potuto, tenendoci, in compenso, il controllo totale sul disco. Molte band si sciolgono perché a un certo punto della carriera si guardano indietro e non sono orgogliose di quel che hanno fatto, i compromessi creano conflitti interni difficili da superare. Noi avremmo potuto comportarci in modo diverso per vendere di più, me ne rendo conto, ma abbiamo dato importanza ad altre cose e ne sono contento.

Sei sempre stato parecchio attivo su Internet, che cosa ti spinge?
Mi piace avere la possibilità di costruire un rapporto diretto con i fan. Essere musicista significa anche farsi intervistare, andare ospite nelle radio, queste cose si sono sempre fatte. Ma quando mi sono trasferito a Los Angeles, era il 1995 mi sembra, ho iniziato a esplorare il web proprio perché mi piaceva l’idea di poter comunicare col pubblico. E questo ben vent’anni fa! Ora con Facebook e i social network è tutto più semplice, più veloce. E ok, Internet può creare problemi all’industria discografica, ma ha messo quell’industria in contatto con una platea più ampia e ha dato alle band l’opportunità di farsi conoscere pubblicando i propri pezzi online, non è male.

Negli anni 90 eravate l’alternativa al grunge arrabbiato di Nirvana e compagnia…
Eppure eravamo altrettanto arrabbiati. Ma poi non è che noi musicisti pensiamo a queste cose, sono discorsi da giornalisti, chi fa musica pensa solo a suonare dei pezzi che gli piacciano. Sinceramente non mi sono mai soffermato a pensare alla musica di altri, né ho mai voluto essere, con i Counting Crows, un’alternativa a qualcos’altro: mi è sempre interessato fare il miglior disco possibile, tutto qui. Conoscevamo i Nirvana, li amavo, mi piaceva Kurt Cobain; più che alle differenze con loro ho sempre preferito pensare a ciò che avevamo in comune. Perché avevamo parecchio in comune! I nostri stili musicali erano diversi, ma eravamo tutti ragazzi che avevano iniziato a suonare per passione, nelle cantine: è questa la vita di chi fa musica.

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