Sono tanti i gruppi e i cantautori che sperano di essere notati. Vivere di musica, questo il sogno comune. Lo stesso di Cecilia Godi, in arte [K(s)A/L], songwriter che mescola suoni blues, industrial ed elettro-vintage, all’attivo un album di buon livello, Viva Terror!, uscito nel 2011, e in tasca un secondo lavoro pronto per essere pubblicato.
«Ero in ballo con un management, ma le cose non stanno andando come avrei auspicato, vedremo…», dice Cecilia, 39 anni, capelli lunghi rossi e un look grunge fatto di scacchi, jeans strappati, tatuaggi e anfibi. Indipendentemente da come si chiuderà la vicenda, la sua è una storia particolare, fatta di ore trascorse a suonare la chitarra a Soragna, paesino in provincia di Parma, ma anche di lavori faticosi, droga, delusioni, rinascite. Ce la siamo fatta raccontare.
Partiamo dal nome: per esteso il tuo pseudonimo sarebbe [Kaiser(schnitt)Amboss/Laszlo], quasi impronunciabile.
Non più di Einstürzende Neubauten! “Kaiser” e “schnitt” significano “taglio” e “imperatore”, ovvero taglio cesareo; “amboss” sta per “incudine” e rimanda alla mia mania per i ritmi marziali e a due miei idoli dell’infanzia: László Bíró, l’inventore della biro, e László Tóth, un australiano di origini ungheresi che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo. Poi ognuno può interpretare a modo suo.
Raccontami: quando hai iniziato a suonare?
A 14 anni, con la chitarra di mio fratello; dopodiché ho messo su una band post punk al femminile, The Wild Cows. In seguito ho avuto altri gruppi, sai, erano gli anni 90, la musica dal vivo era più diffusa e noi avevamo i nostri demo, le cassettine… Alla fine sono rimasta io: i ragazzi crescono, le fidanzate li distolgono dalle passioni e visto che quella che ho io per la musica è una vera ossessione, ho continuato da sola.
Sono lontana da Patti Smith così come da Laurie Anderson, ma adoro Lydia Lunch. Ha voluto il mio disco, le è piaciuto e questo mi ha dato una grossa carica
Cantando in inglese…
Un inglese imparato ascoltando musica. Infatti a seconda delle parole passo dalla pronuncia di Johnny Rotten a quella di un bluesman della Louisiana!
Tutto parte da lì, vero? Dal blues?
Sì, il blues del Delta, quello delle origini, mi ha influenzato molto: Skip James, Sonhouse, Charley Patton. Però ho un gusto eclettico, credo nell’unicità, nello stile, non nei generi. Passo dalla musica modale a quella barocca, dal kraut rock al blues appunto, per arrivare all’hard rock, che mi fa impazzire.
In alcuni pezzi di Viva Terror! ricordi Lydia Lunch: non hai modelli femminili?
Non esattamente, sono lontana da Patti Smith così come da Laurie Anderson, ma dato che citi Lydia, lei sì, la adoro. L’ho conosciuta, una volta che è venuta in concerto a Brescia: è una donna magnetica, mi ha preso, portata nel backstage, ha voluto il mio disco, l’ha ascoltato, le è piaciuto e questo mi ha dato una grossa carica. Anche se finora ho sempre suonato in piccoli locali, davanti a poche persone.
E come ti sei mantenuta?
Perlopiù lavorando in fabbrica come operaia, con i turni e mansioni tipo sollevamento di sacchi nelle lavanderie industriali, preparazione di minestroni e simili per grosse aziende del mercato alimentare. In realtà ho studiato, sono laureata in Filosofia, ho fatto due anni di Musicologia: avrei potuto aspirare a qualcosa di diverso, ma per chi ha velleità artistiche il mondo della fabbrica è perfetto.
In che senso?
Perché è asettico: dopo che hai timbrato il cartellino stai lì otto ore, ma devi eseguire dei gesti meccanici, quindi nel frattempo puoi pensare ai fatti tuoi e quando stacchi non ti porti il lavoro a casa. Senza contare che la costrizione porta sempre a una reazione che può essere creativa.
Immagino che la fabbrica sia stata anche una fonte d’ispirazione per le tue canzoni.
Certo, l’ultimo pezzo dell’album nuovo, per esempio, è dedicato a un personaggio conosciuto in quell’ambiente, un tossico che veniva a lavorare fatto di Lsd e che io guardavo con forte partecipazione perché non capivo come potesse sopravvivere lì dentro con tutta quella roba in circolo. Ma mi hanno ispirata molto anche i suoni ripetitivi prodotti dal processo di meccanizzazione, mi è capitato più volte di tornare a casa dopo averli avuti nelle orecchie tutto il giorno e di mettermi a cantare.
Hai nominato l’Lsd: nella tua biografia c’è scritto che Viva Terror! l’hai scritto sotto l’effetto di questa droga. È vero?
Beh, non proprio sotto l’effetto, sarei una pazza. Mettiamola così: a me piacciono le droghe, non mi nascondo dietro a un dito, è così e basta. Non so spiegare il motivo, forse ci sono personalità che più di altre portano dentro di sé dei demoni e quando questi demoni non riesci ad abbatterli cosa fai? Li assecondi. Io probabilmente ho bisogno delle droghe perché il mio livello di tolleranza nei confronti del mondo non è abbastanza elevato e perché mi sento sempre inadeguata, come se ci fosse una discrepanza tra ciò che sono e ciò che vorrei essere.
Quindi?
Quindi non credo che per fare musica sia necessario drogarsi, anzi, la droga può essere fuorviante, perché magari ti fai, ti metti a scrivere un pezzo, stai da dio, ti sembra una figata, lo registri e il giorno dopo scopri che è una merda. Però, tornando a Viva Terror!, è vero che nella fase di elaborazione dei brani ho fatto uso di Lsd. Lo prendevo da sola, verso le sei di sera, e aspettavo… L’ho usato quasi in modo clinico, come si faceva negli anni 70 e ancor più nei 60.
Lo prendevi, e poi?
Niente, stavo in casa, iniziavo a sentire i primi formicolii, le mani fredde, magari sistemavo in giro e intanto il cervello vagava e io scrivevo, registravo… Il fatto è che in quei momenti ti senti prossimo a Dio, anche se chissà se è uguale per tutti, penso sia soggettivo. La mattina dopo, comunque, ero sfiancata, ma, per esempio, Destroy Your Generation, la seconda traccia del disco, l’ho scritta interamente sotto l’Lsd.
Quanto sei andata avanti così?
Tre settimane, alla fine ero piuttosto pallida.
So, però, che sei stata anche un’eroinomane.
Dal 2003 al 2007. Però non immaginarti chissà cosa, non ho mai smesso di lavorare e di quel periodo ho un bel ricordo. Mi rendo conto che sto dicendo una cosa forte, ma l’eroina non si chiama così per caso: quando l’assumi cammini un metro sopra terra, è fantastico.
Anche pericoloso, no?
Ovvio. Io per fortuna l’ho sempre abbastanza controllata e in questo mi ha aiutato la mancanza di soldi. Quando non avevo più niente in tasca andavo in crisi di astinenza e basta, me la sorbivo, aspettavo tre giorni e via. Non ho mai rubato, non mi sono mai venduta, ho sempre pagato le conseguenze della mia scelta. Perché per me era una scelta, quello delle droghe è un mondo che mi affascina, mi piacciono i vicoli, l’attesa, le telefonate, non amo lo sballo come si intende oggi, sono sempre stata per l’uso solitario o intimo delle droghe e credo che per ogni droga ci voglia un momento, perché ciascuna ha una sua letteratura, una sua filosofia.
Cosa sogni ti possa dare questo disco in uscita? Vuoi diventare famosa?
Mmm, non mi ci vedo, mi basterebbe avere più opportunità di quelle che ho avuto finora, ma non per avere successo, semplicemente per fare concerti, suonare e continuare a scrivere canzoni vivendo decentemente. Poi se riuscissi anche a metter su una band, ah, sarebbe favoloso!
Vivi sempre a Soragna?
Sì, nel mio appartamentino con tutti i miei dischi e le mie chitarre: ne ho tre elettriche e due acustiche, la mia preferita è una Les Pauls Custom nera e oro del 1982 comprata con l’aiuto di mio padre.
Qual è il tuo incubo più grande?
Di non aver più la possibilità di suonare. E non mi riferisco a tutte queste baraccate, il management, vai di qua, vai di là, fatti vedere… Figurati che per fare le foto promozionali mi sono dovuta ubriacare, ero sbronza marcia, non ce l’avrei fatta altrimenti. No, intendo proprio suonare suonare. Senza non sarei più nulla.