Anna Calvi detesta le etichette e le convenzioni, i convenevoli e le frasi fatte. A 37 anni è ancora la stessa degli inizi della sua carriera: timida, introversa e silenziosa, ma innegabilmente magnetica e affascinante. Quattro anni dopo il suo EP di debutto, il 31 agosto è tornata con un nuovo album dal titolo “Hunter”, che lo scorso venerdì ha presentato dal vivo a Roma, rianimando le statue e i reperti d’età imperiale del museo delle Terme di Diocleziano con la sua voce potentissima e fragile al tempo stesso.
A novembre tornerà in Italia per tre date e molto probabilmente si esibirà solo per un’ora a serata. Dato che al pagamento di un biglietto, di solito ci si aspetta di ricevere in cambio una performance lunga almeno due ore, da un qualunque artista ormai consolidato, questa sua decisione potrebbe non accontentare tutti. Perché suona così poco e soprattutto perché vale comunque la pena assistere ad un suo concerto?
Non si più dire semplicemente che è una delle migliori artiste di questi anni, per giustificarla, anche perché non sarebbe una spiegazione esaustiva e soprattutto non accontenterebbe i gusti di tutti. Diciamo invece che è l’eroina degli introversi.
Pur avendo un repertorio piuttosto ampio, la cantante e chitarrista inglese si esibisce sempre con una scaletta di massimo quattordici brani, senza dire molto tra una canzone e l’altra. Al concerto nel cortile michelangiolesco delle Terme, ad esempio, è salita sul palco lentamente, senza neanche guardare il pubblico. Ha preso la sua chitarra e ha iniziato a suonare, chiudendo gli occhi e muovendosi come se fosse in trance, chiusa nella sua stanza o in una sala prove un po’ diversa dal solito. Di tanto in tanto si è avvicinata alla prima fila, con passi pesanti e un pizzico di incertezza, come se volesse carpire le sensazioni di chi le stava di fronte, o forse farsi sentire ancora meglio e dimostrare la sua forza. Ma anche senza dire nulla, è riuscita a instaurare un legame e a coinvolgere tutti, e sessanta minuti sono stati più che sufficienti per dare un quadro completo della sua persona e della sua musica.
Chi ha detto che un concerto debba durare minimo due ore per essere soddisfacente? Chi ha detto che si debba per forza dire qualcosa per presentarsi, quando si sale su un palco? Chi ha detto, poi, che ci si debba per forza definire donna o uomo? Sono tutte convenzioni che Anna Calvi sta cercando di eliminare dalla sua vita e dalla sua carriera, come ha spiegato nel manifesto del suo album.
“Sto combattendo contro la sensazione di essere un’emarginata e sto cercando un posto in cui sentirmi a casa. Credo che il genere non sia altro che un raggio di azione. Se ci fosse concesso di essere una via di mezzo tra il maschio e la femmina, saremmo tutti più liberi. Voglio ripetere le parole “ragazzo ragazza, donna uomo” più e più volte, finché non avranno più senso in confronto alla vastità dell’esperienza umana. […] Voglio scoprire come essere qualcosa di diverso dal ruolo che mi è stato assegnato. Voglio esplorare la sessualità sovversiva, che supera ciò che ci si aspetta da una donna in questa società patriarcale. Mi sento forte, ma comunque vulnerabile. Indosso dei vestiti e la mia arte come un’armatura, ma so anche che essere sinceri con se stessi vuol dire concedersi la possibilità di essere feriti”.
Le basta un’ora a serata per dimostrare di poter fare tutto questo. Datele una chitarra e un microfono, un palco, un batterista e una tastierista, e al resto penserà lei. Insomma, andate a vederla il 21 novembre al Teatro Regio di Parma, il 22 novembre all’Hiroshima Mon Amour di Torino e il 23 novembre al Largo Venue di Roma. Concedetevi un’ora da introversi e fatevi guidare, come hanno fatto Brian Eno, David Byrne e tutti gli altri grandi artisti che sono rimasti ammaliati dal suo modo di esprimersi, usando cinque corde come fossero estensioni delle sue dita e una manciata di canzoni per comunicare.