Poco più di una settimana fa, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha messo la firma su un ordine esecutivo che proibisce l’ingresso al paese ai profughi e praticamente a chiunque altro provenga da Iran, Iraq, Siria, Sudan, Somalia, Yemen e Libia. Al di là dello schiaffo alla Costituzione americana che è questa violazione dei diritti umani, l’iniziativa sbarra le porte anche al dialogo artistico che si è formato, nel corso degli anni, tra musicisti, registi e altri creativi di questi continenti.
Tra chi ha subìto le dirette conseguenze di quest’ordine esecutivo tutto sbagliato c’è Ashkan Kooshanejad, produttore trentunenne che, con lo pseudonimo “Ash Koosha”, fa un’elettronica convoluta, affollata di suoni e, spesso, semplicemente molto bella. Il suo ultimo album, uscito l’anno scorso con il titolo I AKA I e pubblicato dai mecenati della dance Ninja Tune, ha ricevuto lodi da Pitchfork, The Wire, XLR8R e Resident Advisor, solo per citare alcune delle pubblicazioni che gli hanno reso omaggio. L’anno scorso, Rolling Stone USA lo eleggeva “Artista da conoscere” di febbraio, descrivendo il suo album come “stordente, opaco e privo di compromessi.” Kooshanejad ha suonato al Mutek, il rinomato festival di musica elettronica, e ha messo insieme un set di “realtà virtuale” per Boiler Room. Indubbie conquiste, ma nel 2017 Ash avrebbe potuto fare il salto, non fosse che, mentre cercava di promuovere il suo album, è stato d’improvviso considerato parte di un gruppo che va monitorato con “controlli estremi”.
Rolling Stone ha rintracciato Koosha per parlare dell’impasse in cui l’acclamato artista di elettronica si trova al momento.
Come mai sei ansioso di parlare del divieto d’ingresso che Donald Trump ha lanciato su profughi e visitatori di quelle sette nazioni?
Essendo cresciuti in Iran, io e i miei colleghi abbiamo trascorso la nostra intera esistenza nel mezzo di un qualche conflitto. Siamo stati discriminati per nessuna altra ragione se non il fatto che fossimo iraniani. Ma questa volta la situazione è peggiore, perché non solo ha ripercussioni sui profughi – che sono la categoria più vulnerabile – ma anche sugli accademici, sulla gente che lavora in campo tecnologico, e su tutti gli altri. Per noi iraniani non è una novità. La differenza, questa volta, è che io non ne posso davvero più. È una vera e propria sberla a pieno viso. Voglio parlarne perché non riguarda più soltanto me; riguarda tutti. La gente deve capire che l’intera popolazione di un paese come l’Iran non può essere fatta di terroristi o islamisti radicali, o qualunque cosa faccia loro paura.
Da artista iraniano, ti trovi sotto assedio anche quando sei in patria. Per farci un esempio, puoi raccontarci perché ti hanno arrestato nel 2007?
Sono cresciuto nell’Iran post-rivoluzione e ancora oggi, dopo quasi 40 anni, permane lo scontro tradizione versus modernità, la globalizzazione è proibita, e via discorrendo. Sono cresciuto volendo fare cose – volendo far musica, film, innovazioni tecnologiche – ma non ci era mai permesso di esprimerci, e non potevamo suonare in pubblico. E così con la mia band, i Font, ho preso un giardino usato per i matrimoni, in periferia, e l’ho trasformato in un locale per concerti, e insieme abbiamo suonato in maniera pacifica. Il governo ha fatto un blitz al concerto, la tv ci ha trasmessi spacciando la nostra performance come un concerto “satanista”, e siamo stati arrestati. Mia nonna mi ha chiesto se fossi un satanista, e tutto quello che sono riuscito a risponderle è stato, “No, no, no! Siamo solo un gruppo di teppistelli che vuole suonare su un palco!”
Quando hai capito che dovevi lasciare l’Iran?
Eravamo persone serie, volevamo creare, ma ci trovavamo disconnessi dalla cultura internazionale. Per appropriarci dei mezzi di creazione senza passare della censura, abbiamo fatto un film intitolato No One Knows About Persian Cats. Ma il film ci ha creato altri problemi, ed è così che, nel 2010, sono finito nel Regno Unito. Mi hanno spinto fuori dall’Iran, e sono stato obbligato a cominciare una nuova vita. Nel Regno Unito mi sentivo isolato perché non ero parte di quella rete di artisti che si crea nelle scuole e nelle università. Eravamo dei totali estranei.
Cosa ti ha spinto a continuare?
Ho cominciato a collaborare con un piccolo gruppo di irianiani a Londra, a Parigi e negli Stati Uniti. Ma ogni volta che varcavo il confine, metti caso, tra Inghilterra e Francia, avevo la sensazione che, anche se il mio lavoro veniva apprezzato, avrei avuto dei problemi. La sensazione era sempre presente, e adesso lo è in maniera esagerata. Gli Stati Uniti sostengono che, dato che vengo dall’Iran, probabilmente sono un terrorista, quindi mi tocca dimostrare che non sono un terrorista.
Cosa serve perché un “Alieno con Abilità Straordinarie” ottenga un visto 01-B per suonare negli Stati Uniti?
Nel Regno Unito sono entrato come profugo, e adesso sono riuscito a ottenere una residenza permanente. Il problema, però, è che ti porti sempre dietro la nazionalità iraniana. E quindi, anche se il processo per ottenere il visto è lo stesso per tutti gli artisti inglesi, già l’amministrazione Obama ha complicato il processo amministrativo, aumentando i controlli sul tuo passato. Il che significa che ci vogliono due mesi in più perché il visto venga approvato. Per questo motivo, anche se avevamo fatto richiesta per il visto con quattro mesi di anticipo, ho dovuto cancellare il mio tour del 2016.
I promoter hanno dovuto cancellare le nostre date, il che ha danneggiato la promozione di I AKA I. Non che voglia essere visto come una “vittima”, perché la mia situazione è fantastica se mi metti a confronto con i profughi che muoiono in Siria.
Il tuo secondo visto 01-B è stato approvato?
Sì, ma i primi tremila dollari, quelli della prima richiesta, non li rivedrò mai più. La seconda richiesta mi è costata millecinquecento dollari per la corsia prioritaria. Quando sono arrivato negli Stati Uniti non mi hanno fatto i controlli. Cioè, non mi hanno fatto controlli ufficiali, ma l’agente che mi ha fatto passare mi ha chiesto “Come hai fatto a ottenere questo visto, se sei iraniano?” Il che è abbastanza offensivo. “Sei famoso?”
“Non so,” gli ho detto. “Cercami su Google.” Di base, se sei iraniano, diventi automaticamente un problema. Nadhim Zahawi, parlamentare britannico che rappresenta la città di Stratford-upon-Avon, ha l’ingresso vietato. I profughi siriani hanno l’ingresso vietato. E anch’io ho l’ingresso vietato. Siamo in guai grossi a livello globale.
E tu non sei neanche musulmano. Come fai a dimostrarlo a una guardia di frontiera?
Ah, se lo scopri, vieni a dirmelo [ride]. Sono ateo, che forse è un problema ancora maggiore. Non avrei nessun problema a parlare del mio passato, perché mi piace parlare. Ma il vero problema è che in questo caso si va molto oltre. Questo decreto vieta l’ingresso a chiunque sia anche solo remotamente iraniano.
Il tuo lavoro non è spiccatamente politico, anche per quanto riguarda I AKA I, fatta eccezione per Shah. Pensi che il tuo approccio cambierà?
Non metto la politica direttamente nella mia musica. Il lavoro si basa sulla ricerca e sui progressi che faccio nel mezzo. Il messaggio sociale è integrato nel lavoro come sua espressione, piuttosto che come messaggio diretto.
Come pensi che andrà nel futuro prossimo?
Penso che nei prossimi 90 giorni un po’ di cose si sistemeranno, e per i cittadini britannici non sarà più un problema. E tra due o tre mesi sarò anche io cittadino britannico. Ma i promoter hanno smesso di cercarmi date negli Stati Uniti. Non possono rischiare. Faranno lo stesso con chiunque venga dall’Iran. Al momento sono in un limbo, e non sono sicuro di cosa accadrà. Quello che so è che questo decreto creerà un sacco di problemi a tutti, specialmente ai business, alle università e al settore culturale.
Quanto sei demoralizzato?
Sono demoralizzato, ma non lascerò che la frustrazione prenda il sopravvento. Magari mi inventerò uno show di ologrammi dove, grazie all’augmented reality, potrei comunque comparire in qualsiasi luogo del mondo. O quello o mi sa che mi tocca una band di cover dei Three Doors Down [ride].