Non avranno problemi quando si tratta di organizzare la squadra di calcetto i Txarango: sul palco sono in dieci, facile immaginare quanto contagiosi siano ogni volta che si esibiscono.
Energia che convogliano anche in numerosi progetti legati al sostegno di associazioni solidarie (la metà dei diritti di ogni traccia del nuovo disco supporta una differente associazione, solo per fare un esempio) e che da sempre li caratterizzano: per loro la musica è un modo per arrivare a chi ne ha più bisogno, che sia nella loro amata Catalunya o in un campo di rifugiati in Grecia.
Si sono conosciuti nei piccoli paesi dell’interno del Paese, per poi ritrovarsi a Barcellona per l’università, dove hanno scoperto una scena musicale che, in qualche anno hanno contribuito a cambiare, inaugurando quello che è diventato il cosiddetto “Barcelona Sound” e diventandone l’emblema.
Le vostre canzoni sono in catalano: che significa per voi essere catalani oggi?
Cantiamo in catalano perché sogniamo in catalano, perché è la lingua di casa nostra, però ci piacciono molto tutte le culture; abbiamo anche qualche canzone in castigliano, se sapessimo meglio più lingue ci piacerebbe cantare in più lingue. Siamo cresciuti in quel fazzoletto di terra, penso che il luogo in cui cresci ti dona un modo di vedere le cose diverso da quello di altri: siamo contenti di essere cresciuti là, ci sentiamo dei privilegiati perché nella maggior parte del mondo si vive molto peggio che in Catalunya… siamo molto fortunati!
Come spieghereste la questione referendum agli italiani? Abbiamo visto che avete appena pubblicato una vostra canzone a sostegno del “sì”…
Non sappiamo bene quante notizie arrivino dalla Catalunya in Italia; per noi questo è un momento in cui sentiamo di poter riscrivere le regole del gioco, possiamo creare una società molto più giusta, molto più nobile e per questo ci interessa l’indipendenza. Non abbiamo nulla contro la Spagna, è un Paese di cui siamo innamorati, ma abbiamo un’identità, una cultura nostre e vogliamo poter decidere in autonomia.
Come descrivereste la scena musicale indipendente catalana?
Il fatto di avere una nostra lingua ha permesso la nascita di un micromondo inserito in quello più vasto. La musica da noi ha due livelli: la musica di tutto il mondo e la musica di casa nostra e la gente la ascolta, e tanto! Vivere in una città così attraente a livello internazionale come Barcellona ha fatto sì che ci fosse una mescolanza di stili e generi provenienti da tutto il mondo che sono confluiti in un sound originale che, pur provenendo da ogni parte del pianeta, caratterizza la nostra città e il nostro territorio in generale. Abbiamo un panorama molto vivo perché ogni paese ha la propria festa: siamo consci che sia un “microclima” perché le band che viaggiano per il mondo come noi non sono tante, ma c’è comunque davvero tanto lavoro.
Negli ultimi mesi in Italia i problemi con la xenofobia si sono accentuati; a Barcellona ci avete dimostrato, anche dopo il terribile attentato, di non aver paura e di conoscere molto bene il significato della parola “accoglienza”. Avete sempre dimostrato come band che è possibile fare musica senza dimenticarsi che siamo parte di una società che ha bisogno di aiuto: la sfida maggiore per l’Europa, secondo voi, al momento?
La sfida non è una sola, sono tantissime: l’Europa è un progetto che affonda le sue radici nel colonialismo, viviamo in una bolla, sostenuta dallo sfruttamento delle vite di moltissimi altri. Dobbiamo iniziare a fare autocritica ed essere coscienti del fatto che siamo privilegiati e che a pochissima distanza da noi ci sono persone che non vivono ma sopravvivono. Il tema del razzismo è un tema molto caldo: dovremmo iniziare a lavorare sulla sensibilità dei bambini nelle scuole di tutta Europa e provare a cambiare la situazione. Abbiamo vissuto un momento estremamente difficile a Barcellona e siamo stati orgogliosi di far sentire forte l’abbraccio alla comunità musulmana catalana, però c’è ancora moltissimo lavoro da fare contro il razzismo che comunque continua a dilagare. È complicato: condanniamo il terrorismo quando vediamo una violenza concreta come un attentato, in questo caso. Però i nostri Stati sostengono terrore e guerra ogni giorno: non ce ne rendiamo conto perché vogliamo tenere gli occhi chiusi, ma dovremmo criminalizzare il terrorismo ogni giorno. Nell’ultimo disco abbiamo trattato molto questo tema perché buona parte del disco l’abbiamo creato in diversi campi di rifugiati sparsi per il mondo: siamo convinti che ci sia molto lavoro da fare, ma che possiamo essere non solo parte del cambiamento, ma dobbiamo esserne la causa scatenante.