Alle 8 del mattino Travis Barker è già in piedi. Del resto, ha due figli adolescenti, Landon Asher e Alabama Luella (di cui dice: «Sono l’unica cosa che conta»), e gli piace molto accompagnarli a scuola. Ha anche un nuovo album dei Blink-182 da promuovere, “California”, il primo dal 2011 e il primo senza Tom DeLonge, liquidato perché «voleva farci suonare come i Coldplay».
E poi Travis è impegnato a guidare una nuova fase nella carriera della band in cui è entrato nel 1998 per sostituire il batterista Scott Raynor, licenziato durante un tour, e della quale è diventato il simbolo con la sua faccia, il suo modo di suonare e il suo corpo ricoperto di tatuaggi. Ma soprattutto, Travis Barker, 40 anni da Fontana, California del Sud, si alza presto alla mattina perché sa che quando la vita ti dà una seconda occasione è meglio se la prendi al volo e te la giochi fino in fondo.
I Blink-182 sono tornati nell’anno del 40esimo anniversario del punk con il loro settimo album, il più lungo della loro carriera con 16 canzoni scelte tra le decine registrate nei Foxy Studios del nuovo produttore Johh Feldmann che ha sostituito Jerry Finn, il mago del punk pop che li ha portati al successo: «Di solito per fare un album di 13 canzoni ne scrivevamo 12. Questa volta abbiamo lavorato anche 18 ore al giorno», racconta Travis. Hanno scelto di farlo uscire l’1 luglio, ovvero il giorno numero 182 dell’anno, e sono pronti a partire, con Matt Skiba degli Alkaline Trio al posto di DeLonge, per un tour americano di 45 date che inizia a San Diego il 22 luglio per finire l’1 ottobre a Los Angeles. California è veloce e divertente, con ottimi pezzi di pop punk strafottente e iperenergetico come Sober e She’s Out of Her Mind, un singolo azzeccato, Bored to Death, un’iconografia perfetta per rappresentare l’estetica adolescenziale e dai colori sempre accesi della band (la copertina è firmata dallo street artist britannico D*Face) e persino un esilarante intermezzo strumentale lungo 30 secondi intitolato Brohemian Rhapsody. «È il miglior album dei Blink-182 negli ultimi 10 anni», dice contento Travis, sempre pronto a ripartire per la sua opera di proselitismo del punk anche ora che ha compiuto 40 anni, «perché non sarò mai troppo vecchio per il punk». Eppure è difficile non pensare a cosa è successo nella sua vita dal 2009 a oggi. E il primo a non dimenticarselo mai è proprio lui. Non è solo questione di essere punk a 40 anni. È l’incredibile seconda occasione che la vita non regala a tutti, anzi spesso non regala proprio. Se ti capita, il minimo che puoi fare è chiederti perché proprio a te. Travis ci ha provato nel 2015 raccontando tutto nel libro-confessione Can I Say: Living Large, Cheating Death and Drums, Drums, Drums, che ha scritto pensando ai suoi figli e a tutti i suoi fan: «Quando mi chiedono cosa si può imparare dalla mia storia, dico a tutti: leggete il mio libro. È tutto lì dentro».
La storia è questa: Travis Barker ha sempre avuto paura di volare. Di più: ha sempre avuto il presentimento che si sarebbe schiantato in aereo, fin da quando era bambino. Il problema è che, quando i Blink-182 diventano le star della scena pop punk californiana a fine anni ’90 con l’album Enema of the State, sull’aereo ci deve salire spesso. Allora comincia a prendere medicine. Tranquillanti, antidolorifici e oppiacei, fino a diventare dipendente. Una volta, nel 2000, prende troppo Xanax e dorme per tutto il volo da Los Angeles a Sidney, non si sveglia nemmeno all’arrivo e viene trascinato di peso fuori dall’aereo dal personale di volo.
Vita e vizi da rockstar, niente di strano, se non ci fosse stato di mezzo il destino. Il 19 settembre 2009 Travis Barker sale su un aereo privato modello Learjet 60 con il suo migliore amico Adam Goldstein (a.k.a. DJ AM), con cui durante la prima momentanea separazione dei Blink-182 si diverte a suonare in un duo dance chiamato TRV$DJ-AM. Hanno appena fatto un concerto a Columbia, South Carolina, dovrebbero rimanere lì, ma decidono di tornare a L.A.. Sull’aereo con loro ci sono la guardia del corpo Charles “Che” Still (che sale al posto dell’ex moglie di Travis, Shanna Moakler, Miss Usa 1995) e il suo assistente personale Chris Baker. Si dice che, prima del volo, Travis abbia chiamato suo padre Randy, dicendogli: «C’è qualcosa che non va, lo sento». Durante il decollo, il Learjet 60 ha un problema al carrello e sbanda, i piloti cercano di farlo alzare, ma l’aereo si schianta su una collina lungo la Highway 302. Muoiono tutti, tranne Adam e Travis. Lui riprende conoscenza tra le fiamme, cerca di uscire dall’abitacolo, viene investito da un getto di benzina e prende fuoco, ma riesce ad allontanarsi. Anche Adam ce la fa. Sessanta secondi dopo, l’aereo esplode. Travis riporta ustioni di terzo grado sul 65% del corpo e viene sottoposto a 26 operazioni di ricostruzione della pelle: «Ma ero così dipendente dagli antidolorifici che mi sono svegliato durante almeno 11 di queste. Non è stato divertente». Nella sua biografia racconta di aver offerto un milione di dollari agli amici per ucciderlo mentre era in ospedale. Torna a casa con un forte stress postraumatico e la sindrome del sopravvissuto. Ma è vivo, ha i suoi figli e una carriera con i Blink-182 da portare avanti. Adam Goldstein ha riportato ustioni di secondo e terzo grado alle braccia e alla testa, guarisce più in fretta, ma non riesce a superare il trauma e, dopo 11 anni da sobrio, comincia a farsi di farmaci e finisce fumando crack. Il 28 agosto 2009, mentre Travis è ad Hartford, Connecticut, per il tour che celebra la reunion dei Blink-182, Adam Goldstein viene trovato morto nel suo appartamento di New York con di fianco una pipa di crack e diversi flaconi di farmaci. Il suo ultimo tweet è una citazione da un pezzo di Grandmaster Flash & The Furious Five: “New York, New York, grande città dei sogni / Ma a New York non è tutto come sembra”.
“Ci penso ogni giorno”, ha scritto Travis nella sua biografia, “è stata un’overdose accidentale o si è suicidato?”. Delle sei persone che sono salite su quell’aereo, Travis oggi è l’unico sopravvissuto. «La mia reazione è stata smettere di dormire», racconta. «Alla mattina la mia colazione era: quattro canne, quattro Vicodin, un Valium, un Oxycodone. Era l’unico modo per farmi uscire di casa. Pensavo sempre che, appena fuori, mi sarebbe caduto qualcosa in testa dal cielo. Avevo persino installato un programma sul computer che mi avvisava ogni volta che nel mondo avveniva un incidente aereo».
Travis Barker non ha più messo piede su un aereo. Quando è in tour in America con i Blink-182, si sposta con il suo gigantesco tour bus e, quando deve andare in Europa, lo fa a bordo del transatlantico Queen Mary 2. Il viaggio dura 10 giorni. Immaginare Travis Barker in mezzo ai pensionati in crociera fa sorridere anche lui: «Di solito mi chiudo nella mia cabina per tutto il tempo a fare esercizio fisico e a suonare la batteria, non mi va di giocare a golf sul ponte».
Oggi Travis Barker sta bene, è sobrio da otto anni, accompagna i figli a scuola e ha capito che deve sfruttare al massimo la seconda occasione: ««Il punk per me è sempre stato fare quello che mi piace e fregarmene di quello che pensano gli altri. Ho vissuto la vita da rockstar all’estremo, ho sfidato la morte e non so perché ho vinto. Diciamo che adesso non mi dispiacerebbe quella parte in cui si vive a lungo».
La seconda vita dei Blink-182 è appena iniziata. Matt Skiba ha debuttato con la band nel marzo 2015 sul palco del MusInk Tattoo and Music Festival di Costa Mesa, California. La risposta del pubblico li ha convinti a chiudere in fretta la questione Tom DeLonge ed entrare in studio con lui: «I Blink stanno bene», ha dichiarato Mark Hoppus, ultimo membro fondatore della band, «amo la nostra band, amo ogni passo che abbiamo fatto e sono contento perché continuiamo a fare la musica che ci piace e ci sentiamo come quando suonavamo nei garage di San Diego nel 1994».
La California del titolo del nuovo album dei Blink è uno stato mentale, il simbolo del disincanto adolescenziale, dell’ironia al limite della stupidità, dello spirito pop e della rivendicazione di uno stile di vita esageratamente californiano, che hanno sempre caratterizzato la band, nel bene e nel male: «La nostra ispirazione viene dal luogo in cui siamo cresciuti e in cui viviamo», dice Travis, «in questo disco c’è la mia vita trascorsa suonando, andando in spiaggia, girando in skate e mettendomi nei casini. Amo e vivo ancora il punk come quando avevo 16 anni, l’unica differenza è che ora cerco di stare lontano dai guai. La cosa bella della musica è che è la colonna sonora della tua vita, e non c’è stato un giorno in cui io non abbia avuto voglia di ascoltare punk rock». Travis Barker non vede l’ora di andare in tour (in Europa forse arriveranno l’estate prossima), anche se ha ancora una paura fottuta di viaggiare: «Il punk è molto più grande di una generazione e sento che questo è un nuovo inizio. California è un disco classico, ha tutto quello che la gente vuole sentire da noi, ma ha anche melodie nuove, suoni più duri e altre cose inaspettate. Ha una grande energia e un sacco di vibrazioni diverse».
Travis Barker si è guadagnato un posto nella storia del rock, non solo dietro alla batteria. Resta soltanto una cosa da sapere, ed è importante per essere certi che non mollerà mai. Tra i tatuaggi cancellati dalle ustioni c’era anche la scritta “Bones”. Era il suo primo tatuaggio, quello che si era fatto quando era un ragazzino incazzato senza madre e senza soldi, che per mantenersi lavorava come spazzino sul lungomare di Laguna Beach e di notte suonava in una band chiamata Snot con l’idea di stare seduto per sempre dietro alla batteria a spaccare tutto, come faceva da quando gliene avevano regalata una a 5 anni. Dopo l’incidente, le operazioni, la perdita di un amico, la dipendenza e tutto quello che è successo, non posso non chiedergli se si sia rifatto qualcuno dei tatuaggi che ha perso. «Certo», risponde lui senza esitare. «Uno l’ho finito da poco. E non smetterò mai».