Un anticipo dell’intervista esclusiva a Calcutta, in edicola sulnuovo numero speciale di Rolling Stone, dedicato alla nuova generazione della musica italiana.
Il nuovo album di Calcutta si chiamerà Evergreen e uscirà il 25 maggio. In copertina ci sarà Edo in mezzo a un gregge di pecore, su un prato verde. Sarà un disco più suonato dell’altro. Sarà un disco pop. Avrà un suono un po’ antico. Più classico. Giuro di aver sentito a un certo punto di questa conversazione pronunciare la frase: «Ritornelli alla Massimo Ranieri. Non gridati». Dimenticate il cantautore scombinato lo-lo-fi dei Sabaudian Tape, tipo K Records, voce e chitarra che si sente male. Dimenticate il cantautore con la chitarra. «Adesso scrivo quasi tutte le canzoni al pianoforte, un abbozzo che poi sviluppo con il mio amico Paco, che fa l’arrangiamento. Porto tutto a Bologna e registro con il mio solito fonico e un po’ produttore Andrea». Andrea Suriani ha lavorato con Cosmo, I Cani, Coez. Pasquale detto Paco «è un ragazzo della zona che conosco da sempre, più quadrato e metodico di me, che mi aiuta con gli arrangiamenti però non viene mai in studio».
«Io questa sfida con il pop ce l’ho in piedi da sempre», riprende Edoardo. E si capisce anche perché Smile, il disco incompiuto dei Beach Boys composto da Brian Wilson con il pianoforte nella sabbia, sia stato per lui una specie di talismano in questo periodo: «Per Orgasmo sono arrivato in studio con un sacco di tracce, quasi un’orchestra sul ritornello, e alla fine ho avuto paura. È rimasta una chitarra e poco altro. Mi è dispiaciuto». Insicurezze da autodidatta. Edoardo mi ricorda che all’inizio dell’exploit delle sue canzoni i suoi più grandi haters in Rete erano maschi e musicisti esperti. «Tutti col basso a tracolla nella foto del profilo. “Guarda questo”, dicevano. E avevano ragione».
Da allora la cosa è andata avanti parecchio: il doppio concerto annunciato quest’estate all’Arena di Verona e allo stadio di Latina è un’idea talmente folle da sembrare uno scherzo. «L’Arena di Verona ha un’aria così sacra», mi dice Edoardo con l’aria di chi ancora pensa di averla fatta grossa. Poi ci ripensa e continua: «La cosa più importante del pop è quella di fare delle cose complesse senza che chi ascolta se ne accorga. Guarda God Only Knows, sono solo quattro accordi ma cambiano in continuazione, ti perdi. Secondo me è la canzone più bella della storia. Brian Wilson è uscito pazzo per fare quella roba, e non penso che avesse degli haters». A un certo punto tra gli ascolti di fortuna che accompagnano questa conversazione con passeggiata su e giù per Sperlonga e sosta per il pranzo, da un telefonino tanto pieno che grida pietà e una cassa bluetooth grande come una tazzina, spunta fuori una canzone intitolata Saliva. Solo voce e chitarra, in Do maggiore con qualche settima aumentata. Ci potrai mettere sopra l’orchestra, tipo Reverberi e Battisti, ma sempre resterà chitarra e voce. Il ritornello grida: “La cosa più bella che hai sono i nei / che punteggiano i discorsi tuoi / La cosa più bella che hai è la saliva che risbatte forte come il mare / ai miei pensieri arriva”. Calcutta grida sempre nei ritornelli.