In una vecchia strada malfamata di Detroit, nel 1959, tra un salone di bellezza e un’agenzia di pompe funebri, un giovane imprenditore nero fissava un’insegna sopra alla porta della sua nuova casa, un piccolo bilocale acquistato con 800$ prestati dalla famiglia. L’insegna recitava “Hitsville USA” e rappresentava la porta d’ingresso della prima etichetta discografica di Berry Gordy, un’impresa familiare che nel giro di poco tempo si sarebbe trasformata in una delle label indipendenti più importanti della storia della musica leggera, la Motown.
Pugile fallito, imprenditore fallito – aveva aperto un negozio di dischi jazz con il denaro del congedo militare -, ex-meccanico con alle spalle qualche singolo scritto per Jackie Wilson, Berry Gordy ha fondato la sua etichetta a 30 anni. Abitava insieme alla moglie al piano di sopra: di sotto il garage era stato trasformato in una rudimentale sala d’incisione e la cucina nella cabina di regia. I suoi sogni erano piuttosto banali: scrivere canzoni, guadagnare un sacco di soldi e conquistare le più belle ragazze della zona. L’esperienza nella catena di montaggio di una fabbrica di automobili, insieme alla sua educazione musicale – il nonno era un pianista amante di Rachmaninov –, saranno le due anime dei suoi primi 20 anni da discografico.
«Avevo in testa questa immagine», ha detto lo scorso anno al Telegraph, «un ragazzino normalissimo entra nella nostra sede e, come in una catena di montaggio, ne esce trasformato in una star. Questo era il mio sogno. La mia famiglia mi ha dato dello stupido. Le macchine sono macchine, dicevano. Non puoi farlo con gli esseri umani». Invece aveva ragione lui. Tra il 1960 e il 1970 la Motown diventa l’etichetta indipendente più importante degli Stati Uniti: nel 1961 aveva già pubblicato tre singoli da primo posto in classifica (Money di Barrett Strong, Shop Around dei Miracles e Please Mr. Postman) e nel giro di un decennio ha trasformato il mercato pubblicando una serie di dischi incredibili, da Marvin Gaye a Stevie Wonder, poi le Supremes e i Jackson 5, una sequela pazzesca di successi che ha trasformato il fallito Gordy in uno dei discografici più influenti del paese, così potente da potersi permettere di convocare Martin Luther King a Detroit per proporgli di incidere i suoi discorsi e farne un album.
Quella della Motown è la prima integrazione razziale della storia della discografia americana, ed è con i suoi dischi che la musica nera è arrivata per la prima volta alle orecchie di tutti, grazie a un marchio di fabbrica indistinguibile, che andava dal suono al modo di vestire, una rivoluzione culturale che Gordy definiva come «musica per bianchi, neri, ebrei e stranieri, per sbirri e i rapinatori».
Il biglietto da visita era il Motown Sound, una particolare miscela di pop, funk, gospel e jazz, caratterizzata da una sezione ritmica molto più presente del solito – soprattutto il basso, con musicisti invidiati dalle band di tutto il mondo – e dall’accoppiata di grandi voci soliste e sezioni di fiati e archi, il tutto con un mix sbilanciato sulle alte frequenze, così da suonare meglio nelle radio AM.
L’altra faccia della medaglia era la catena di montaggio: un gruppo di autori, produttori, tecnici del suono e musicisti che incarnavano da una parte le manie di controllo di Gordy, dall’altra la certezza che ogni singolo disco pubblicato fosse inseparabile dall’identità culturale dell’etichetta. Per rendere meglio l’idea, sappiate che oltre ai fonici e agli artisti c’era anche chi si occupava dei passi di danza (il coreografo Cholly Atkins) e chi insegnava le buone maniere, per esempio come uscire con eleganza da una limousine (Maxine Powell).
Marvin Gaye, uno dei pochi capace di smarcarsi dalle idee di Gordy, paragonava il capo «alla Gestapo. Certo, una versione amorevole, Berry è una persona meravigliosa, ma sempre di Gestapo si tratta». E per certi versi aveva ragione, Gordy era un maniaco del controllo e ogni venerdì alle 9 del mattino si riuniva con i suoi uomini per ascoltare tutta la produzione della settimana. «Se aveste un dollaro in tasca», chiedeva sempre, «comprereste questo disco o un sandwich?».
Qui sotto trovate 10 album usciti nella golden age della Motown, quando la musica nera è arrivata per la prima volta in cima alle classifiche.
“A Quiet Storm” di Smokey Robinson (1975)
Smokey Robinson è il primo artista della storia della Motown, ha conosciuto Gordy a 17 anni e sono ancora buoni amici. Ha scritto per decine di artisti dell’etichetta – My Girl, probabilmente il pezzo più famoso dei Temptations, è una sua creatura – e questo Quiet Storm è un capolavoro di soul romantico.
“Sophisticated Soul” The Marvelettes (1968)
Le Marvelettes erano un trio di giovani ragazze arrivate negli uffici della Motown grazie a un proto-talent show. Sono il primo gruppo dell’etichetta ad aver conquistato il primo posto in classifica e, aiutate dai brani scritti da Robinson, hanno pubblicato una serie di dischi di soul sofisticato, come l’ottavo album che abbiamo messo in lista.
“Reach Out” Four Tops (1967)
I Four Tops sono arrivati al successo da “anziani”, erano tutti over 30 e suonavano da anni nei nightclub di Detroit, proponendo praticamente solo standard jazz. Reach Out è il capolavoro di Holland, Dozier e Holland, uno dei gruppi di produttori più prolifici della Motown e che amavano scrivere per la voce di Levi Stubbs, che su Bernadette regala una performance mostruosa.
“Dance Party” Martha Reeves & The Vandellas (1965)
Prima delle Supremes c’erano Martha Reeves & The Vandellas, che con Dance Party conquistano il premio di album più ballabile della nostra lista. Anche qui uno classico firmato da Holland-Dozier-Holland (Nowhere to Run) e una perla scritta da Marvin Gaye (Dancing in the Street).
“Sky is the Limit” Temptations (1971)
In questo disco dei Temptations non ci sono le hit più famose del loro repertorio – My Girl e Papa Was a Rollin’ Stone. Sky’s the Limit è un matrimonio bellissimo tra il Motown Sound e l’estetica psichedelica. L’incontro di questi due mondi ha dato vita a brani toccanti come Just My Imagination, e anche alla suite polemica Smiling Faces Sometimes.
“More Hits” The Supremes (1965)
Quando le Supremes erano all’apice del loro successo c’era addirittura chi le indicava come la possibile risposta americana ai Beatles. La definizione era esagerata, sì, ma il successo del gruppo non era certo robetta: More Hits è uno dei dischi più venduti del catalogo Motown; Stop! In The Name of Love e Back in My Arms Again raggiunsero entrambe il numero uno in classifica, e le prenotazioni dell’album superarono le 300mila copie. A questo disco hanno lavorato tutti i pezzi grossi dell’etichetta: Holland e Dozier alla produzione, i Funk Brothers come backing band e la Detroit Symphony Orchestra per le sovraincisioni.
“What’s Going On” di Marvin Gaye (1971)
«Marvin Gaye è l’artista più grande con cui io abbia mai lavorato. Ma anche il più difficile», diceva Gordy del marito di sua sorella Anna. «Un genio ostinato, capriccioso, difficile. Non volevamo fare un disco di protesta, ma lui mi ha convinto parlando di suo fratello, del Vietnam… non potevo dirgli di no». What’s Going On è il disco con cui Gaye si è allontanato dalla “catena di montaggio” della Motown, un concept drammatico che affronta la guerra, il razzismo e il disastro ecologico.
“ABC” Jackson 5 (1970)
I Jackson 5 sono finiti subito nelle grazie di Gordy, che li ospitava a casa sua e aveva addirittura costruito un gruppo speciale di autori chiamato “The Corporation”, il meglio dell’etichetta al servizio di questi giovani su cui puntava forte. Nel loro secondo album ci sono alcune delle hit più famose del loro repertorio, come The Love You Save e Never Had a Dream Come True. Ovviamente brilla già fortissimo il giovane Michael Jackson, che all’epoca aveva solo 12 anni.
“Diana Ross” di Diana Ross (1970)
La più grande delusione della carriera di Gordy è stata – per sua stessa ammissione – l’abbandono di Diana Ross del 1981. «Il mio sogno era trasformarla nella star più grande del pianeta», ha detto una volta. Il suo debutto da solista – dopo i successi con le Supremes – è un disco meraviglioso, l’ultimo test per capire se la Ross avesse le capacità per farcela senza la sua band. Le aveva.
“Innervisions” di Stevie Wonder (1973)
Il capolavoro di Stevie Wonder è un album a due facce: da una parte c’è la critica all’America di Nixon (Too High), al degrado metropolitano e alla tragedia della guerra, dall’altra l’ottimismo spirituale tipico dei momenti migliori di Stevie, che in Innervisions era davvero in un momento di semi-onnipotenza. Higher Ground, per fare un esempio, è stata scritta e registrata in meno di tre ore. Insieme a What’s Going On è probabilmente il disco più bello di tutto il catalogo Motown.