Vedi Pynk, il nuovo video di quel genio di Janelle Monáe, e non ci credi. Poi ti rendi conto che per lanciare Dirty Computer, il nuovo disco nei negozi il 27 aprile, questa magnifica giovane donna di 32 anni da Kansas City lo ha fatto davvero: qualcuno ha cucito addosso a lei e alla sua squadra d’amiche un paio di pantaloni a forma di vagina, nel caso non fosse ancora chiaro quanto tenga al “pussy power”. Prima di lei, solo Björk su questo pianeta aveva osato infilarsi dentro una specie di sacco rosa di poliestere che alludeva alla parte più intima che ci portiamo a spasso da ché nasciamo.
Solo che Janelle è andata anche oltre e ci ha costruito sopra 4 minuti e 29 minuti di celebrazioni pink varie e assortite. C’è perfino un momento in cui la valchiria Tessa Thompson (Thor: Ragnarock, Westworld e Creed) sbuca con la testa dalle gambe della cantante e tutte fanno oh!. Questo se a qualcuno sfuggisse il suo punto di vista. Anche dopo averla ascoltata sul palco della Women’s March di Washington, ma soprattutto su quello dei Grammys 2018 affermare: «Sono orgogliosa di manifestare la mia solidarietà, non solo come artista ma anche come giovane donna, alle mie sorelle che in questa stanza lavorano nell’industria della musica: cantanti, autrici, segretarie, uffici stampa, amministratori delegati, produttori, ingegneri e donne di ogni settore del business. Siamo anche figlie, sorelle, mogli ed esseri umani. Veniamo in pace, ma sappiamo che cosa sono gli affari. E a quelli che osassero silenziare le nostre voci noi offriamo due parole: Time’s up».
Sì, Janelle Monáe, la capatosta di Moonlight e Il diritto di contare, è pronta a lottare contro un qualunque Weinstein. Tempo scaduto, tolleranza zero. E a Trump che una volta ha buttato lì: «Io le donne le afferro per la fica», lei risponde con «I Grab Back», mi riprendo, stampato sui di lei slip. Da cui, peraltro, spuntano cespugli spudoratamente incolti.
Una citazione dagli anni in cui si lottava per la liberazione delle donne e per il loro diritto a bruciare reggiseni, mestoli, fedi. Poi negli anni Novanta, mentre nei teatri Eve Ensler portava i Monologhi della vagina, a Hollywood succedevano le peggio cose. E finanche Asia Argento non riusciva a trovare il coraggio di dire di no: «Ero congelata. Il che spesso ha a che fare anche con certi tuoi drammi infantili». Lo ha dichiarato al Women in the World Summit che si tiene oggi e fino al 15 aprile a New York dove ha anche giurato che non smetterà mai di combattere. C’era anche Laura Boldrini, che tra i suoi hater ha citato Beppe Grillo e Matteo Salvini («E adesso rischia di diventare Primo Ministro», ha notato): «L’insulto personale è diventato un’arma politica. Se fossi stata un uomo, non sarei mai stata trattata in questo modo. Ne sono sicura al 100%».
Sono orgogliosa di manifestare la mia solidarietà, non solo come artista ma anche come giovane donna, alle mie sorelle che in questa stanza lavorano nell’industria della musica
Il che è molto più di un’intuizione. È la sacrosanta verità. Solo che: a che punto è il femminismo nel nostro paese? Esiste ancora o possiamo parlare senza più pensieri di post: post-femminismo, post-ideologia, post-tutto? E soprattutto, ne abbiamo davvero ancora bisogno? Forse l’Italia non è un paese per donne. Eppure in cima alla classifica dei libri più venduti c’è il secondo volume di Storie della buonanotte per bambine ribelli.
Perché sogniamo di vivere in un altro mondo, alla fine. Dove uno come Fausto Brizzi, a tre mesi dalle denunce di molestie, non solo ha un nuovo lavoro, ma un altro difensore. Luca Barbareschi, regista produttore e direttore del Teatro Eliseo, gli ha affidato la direzione dell’Eliseo Cinema. E lo ha infiocchettato con le seguenti parole: «Questo branco del #metoo è fatto di mentecatti».
Ecco, ci vorrebbe una Janelle Monáe italiana per rispondergli per le rime. Se c’è, che batta un colpo, please. Grazie.