Nella gigantesca nube di Internet, è facile farsi sfuggire da sotto il naso tanta buona musica. Se poi ci aggiungiamo anche la mancanza di tempo, si finisce per ascoltare sempre gli stessi dischi per mesi. Perciò vi proponiamo cinque artisti promettenti (non necessariamente emergenti) che stanno spaccando le classifiche o che semplicemente amiamo sparare a tutto volume in redazione.
Catfish & The Bottlemen
Suonano come: Sfrecciare in Vespa nel deserto alle 3 di mattina, con dietro Iggy Pop che canta gli Strokes.
Consigliato a chi ascolta: Arctic Monkeys, Royal Blood, Jake Bugg.
Perché dovresti conoscerli: Finora questo schifo di nome non è ancora riuscito a intralciare più di tanto la band alt-rock inglese, ad eccezione forse di quando a gennaio David Letterman si era incespicato presentandoli. Grazie alla parlantina e alla rabbia da working class del cantante e chitarrista Van McCann, la formazione si è assicurata un contratto con la Communion Records, co-fondata da Ben Lovett dei Mumford & Sons, su cui ha rilasciato un EP di cinque tracce che vale quanto tre album studio. L’imponente disco di esordio, The Balcony, è stato prodotto da Jim Abbiss (vedi alla voce Arctic Monkeys, Kasabian) e trova la sua massima espressione nel ritornello a squarciagola di “Kathleen”, campionessa di visualizzazioni su YouTube. Sembra che il tour di oltre 100 date dell’anno scorso abbia giovato parecchio a McCann e compagni, assoldati per esibirsi anche sui prestigiosi palchi di SXSW e Bonnaroo.
Dicono di sé: “Kathleen è il motivo che ti spinge a bere,” ci ha raccontato McCann. “È quella che chiami alle tre di notte nonostante ti sia sbronzato per dimenticarla. Vaghi senza una meta sapendo che non dovresti, ma prima che tu te ne accorga ti ha già tolto tutti i vestiti. Lei è la classica persona di cui ti innamori, sapendo già a priori che è una pessima idea.”
“Sono del nord, perciò mi capiscono a stento a Londra e in America. Nel primo tour, la gente ci diceva [con accento americano]: ‘Zio, come hai detto che vi chiamate? Spaccate, davvero.’ E io rispondevo “Catfish and The Bottlemen” E loro: ‘Cosa?? Catfish e the Boobtrotters?’ E così via con altre mille storpiature. Succede sempre e sinceramente ci siamo rotti di ripeterlo. È davvero un nome di merda, o no? Una volta prima di passarci in radio hanno dovuto aprire la mail in diretta per controllare il nome. Più volte ho provato a cambiare nome ma la label non ne vuole sapere.”
Seinabo Sey
Suona come: Una fusione di Nina Simone e Moby a formare un natural blues del futuro (con tanto di cameo illuminante di Des’ree). Ha un passaporto R&B con sopra marche dalla Scandinavia, dall’Africa e dalla Luna.
Consigliata a chi ascolta: Adele, Laura Mvula, Erykah Badu.
Perché dovreste conoscerla: Nuova voce soul svedese, Seinabo Sey (da pronunciare sey-na-bo si) ammette che di non aver mai “Capito a pieno l’EDM”, forse per colpa del poco gusto dei DJ. Il suo inno all’anti-temporeggiamento “Younger” è stato remixato dal producer norvegese Kygo, raggiungendo milioni di play su Soundcloud e il primo posto della classifica Dance di Billboard. Dovrà essere stata molto contenta sua madre, quando ha assistito all’esecuzione di For Madeleine (il suo nome, appunto) insieme a un’orchestra sinfonica davanti alla platea degli annuali premi Nobel a Oslo. Speriamo che la giovincella possa rilasciare il suo primo album entro il 2015.
Dice di sé: “La prima volta che mi sono esibita avevo 13/14 anni. Era a scuola e mi dovevano persino dare un voto. Avevo suonato nel coro in precedenza, ma mai da sola. In quel momento ho pensato di non essere poi così male a cantare, mi spaventava farlo e questo mi stimolava molto.”
Leo “Bud” Welch
Suona come: autentico blues rude del Delta del Mississippi.
Consigliato a chi ascolta: Junior Kimbrough, T-Model Ford, Mississippi Fred McDowell.
Perché dovresti conoscerlo: Dopo aver dedicato circa mezzo secolo ad attività rurali come arare i campi e tagliare la legna, l’82enne ha deciso di debuttare nella musica. Nel 2013 è uscito Sabougla Voices, una fedele proiezione del gospel su organo elettrico che ha suonato per qualcosa come 30 anni nella Chiesa Battista di Sabougla e dintorni. Anche se il sovrannumero di chiese nel Mississippi potrebbe assicuragli lavoro a vita, Welch ha deciso di condividere la propria musica incidendo I Don’t Prefer No Blues, un disco pulsante di chitarre distorte. “Non preferisco affatto il blues” è proprio la risposta che venne data a Welch dal suo pastore quando gli comunicò l’intenzione di darsi al blues. “Lo so” aveva ribattuto Welch, “perché non l’hai mai ascoltato”.
Dice di sé: “Troppo vino può accecarti. Bevo un po’ di whisky per schiarirmi la gola. Se inizi a cantare su un brano con un tono troppo alto, è un po’ come arrampicarsi su un albero partendo dalla cima. Non puoi andare più su di così, perciò farai bene a tenere il culo a terra. Continuo a fare blues perché quando sono sul palco con la chitarra ci sono sempre belle signore tra il pubblico. Se una di queste mi urla ‘Canta!’ io rispondo ‘Ci puoi giurare, zuccherino!”
Mitski
Suona come: una svolta durante una psicoterapia sull’indie rock.
Consigliata a chi ascolta: Rilo Kiley, Jessica Lea Mayfield, Liz Phair.
Perché dovresti conoscerlo: Il suo recente Bury Me At Make Out Creek risalta un’abilità innata nel passare dall’indie-folk all’heavy rock senza che nessuno si accorga di nulla. Ma ci è voluto tempo: Mitski ha studiato composizione al college e i suoi dischi precedenti effettivamente suonavano un po’ troppo cantautorali. Cita, tra le ispirazioni, il folk internazionale e il pop giapponese, che le ha sempre cantato sua madre, anche se deve molto a M.I.A., Mica Levi e Björk.
Dice di sé: “Prima di Drunk Walk Home, non ho mai strillato. Quando stavo registrando l’album però ho cambiato idea. Ricordo di aver fatto una take di urli piuttosto scarsa. Il fonico si è alzato in piedi e disse ‘Fa’ provare a me’ E fece degli urli di gran lunga migliori dei miei, così ho esclamato ‘OK, pezzo di merda, senti qua’. Sono molto competitiva.”
Vic Spencer
Suona come: Un liricismo spiccio dell’hip-hop anni Novanta, con un pizzico di nonsense.
Consigliato a chi ascolta: Sean Price se fosse cresciuto a Chicago un decennio dopo.
Perché dovresti conoscerlo: All’alba dei trenta, Vic è di certo più vecchio dei normali rapper emergenti. Questo rende il suo approccio scontroso più simpatico che irritante. È cresciuto per strada, nel clima undreground della scena hip-hop Chicago di fine anni Novanta e, nonostante il boom bap sia qualcosa un po’ datato, suona sorprendentemente fresh e celebrativo.
Dice di sé: Entrambi i genitori di Vic avevano problemi di droga, così finì per vivere dalla zia a partire dai sette anni. Giunta l’adolescenza si trasferì in un orfanotrofio, ambiente in cui cominciò a prendere sul serio il rap. Era il 1997: “Stavo cercando di sconfiggere alcuni fantasmi che mi portavo dietro da tempo. [Abbiamo formato] un gruppo chiamato Uhlich Voices e siamo partiti per un viaggio. Sacramento, Kentucky, Connecticut. Suonavamo nelle sale delle organizzazioni per il sostegno della famiglia e dell’infanzia. Volevo che tutti sapessero del mio dramma e che nonostante tutto c’è sempre un motivo per sorridere”