«A noi interessa produrre una buona musica, avere un ottimo flow, trovare giochi di parole e metafore. Se poi i pezzi entrano nel cuore della gente, meglio. Però non è questa la nostra intenzione». Forse sono illuminanti queste parole pronunciate da Guè Pequeno alla fine della conferenza stampa di presentazione di Non siamo più quelli di Mi Fist, la settima fatica in studio della crew di rapper.
Basta chiedere loro che cosa ne pensino della situazione politica attuale, del significato delle loro rime e se sentano qualche responsabilità nei confronti dei ragazzini che li ascoltano (e che affollano lo spazio davanti alla Mondadori in piazza Duomo già da diverse ore).
I Dogo non hanno voglia di dare troppe spiegazioni se non sulla musica, appunto, sul periodo trascorso a Los Angeles per questo nuovo lavoro e sul mixaggio di un asso come Demacio “Demo” Castellon («Ti dico solo che dopo il nostro album andava a mixare quello di Madonna!», racconta Don Joe).
Con Non siamo più quelli di Mi Fist chiudono la tripletta di titoli auto-riferiti: Che bello essere noi (2010) e Noi siamo il club (2012) e liquidano abbastanza in fretta anche la spiegazione del titolo.
«Mi Fist è il nostro album del 2003, che abbiamo registrato in stato di incoscienza, eppure era elegante e curato dal punto di vista stilistico. In questi anni, dopo il successo, in molti ci hanno dato dei venduti e ci hanno rinfacciato di non essere più quelli dell’inizio. In Italia succede spessissimo così, abbiamo visto che questa accusa è stata utilizzata anche in altri ambiti dove noi non c’entravamo più, per questo abbiamo deciso che questo titolo provocatorio era perfetto!. E comunque delle polemiche sul fatto che sia sempre meglio l’album precedente non ce ne frega proprio niente».
In Non siamo più quelli di Mi Fist i Dogo hanno mischiato, ancora di più, le carte: in Sayonara ci sono delle schitarrate rock di Lele Spedicato dei Negramaro, in Start it over una base reggae, e poi un campionamento di Un cuore con le ali di Ramazzotti in Weekend, uno di Overdose (d’amore) di Zucchero in Sai zio, la voce di Arisa in Fragili.
«Noi le tamarrate le abbiamo fatte tutte, non possiamo più avere paura che ci dicano niente: pezzi dance, partecipazioni ai reality, collaborazioni improbabili. Tutto. E comunque con le collaborazioni con Biagio Antonacci ed Eros Ramazzotti siamo stati dei pionieri. Ancora una volta».
L’hip-hop contaminato è quello che interessa loro in questo momento e che si riflette nei loro ascolti: «Non so neanche dirti cosa ascolto ora», racconta Jake, «è tutto mischiato. Non si capisce dove vai a finire quando inizi con Spotify: inizi con la trap, poi arrivi ad ascoltare cose vecchissime, strane. Del resto l’hip-hop in tutto il mondo è così ora, influenzato da generi diversi».
Negli Stati Uniti, a Los Angeles dove sono rimasti diversi mesi, hanno constatato per l’ennesima volta un mondo diverso: «Lì esiste davvero la meritocrazia», ha raccontato Guè, «Prima di essere scelto per andare a lavorare da qualche parte devi dimostrare di essere migliore di chi sta già lavorando lì, direi che è giusto così».
E qui in Italia?: «Il rap ormai è diventato davvero la musica di tutti, non come negli Stati Uniti ma quasi. Per quanto riguarda i club è ancora la morte, io piuttosto preferisco scappare in Svizzera. A Zurigo ci sono dei posti incredibili, appena posso scappo lì», prosegue Guè.
E la situazione generale? «Ora è il momento del “forse”, del “vediamo come va a finire” », risponde Jake. «Comunque spesso è inutile chiederci che cosa volevamo dire precisamente in una tale rima, perché la risposta ormai la sapete già».
L’intervista ai Club Dogo sul numero di Rolling Stone in edicola da venerdì 12 settembre.