Senza stare ore a masturbarci su indicatori e percentuali, la crescita che negli ultimi anni ha investito la qualità globale della musica dal vivo è sotto gli occhi di tutti, ed è degna di dimostrazioni quanto mai lapalissiane. Insomma, basta assistere a un qualsiasi live per rendersene conto: ovunque – anche, con le dovute proporzioni, nelle piccole realtà – si vedono concerti sempre più pirotecnici, complessi, con centinaia di visual, coreografie e trovate sceniche. È una crescita, questa, figlia dell’esigenza di puntare tutto sui live, dal momento che rimangono l’unico canale in cui, per un artista, abbia senso investire – i dischi, lo sappiamo, non si vendono più, e lo streaming rappresenta le briciole del piatto.
In questo sviluppo per cui sarebbe davvero da stronzi lamentarsi, c’è un problema: dei concerti sempre più articolati comportano, come rovescio, la perdita dell’imprevedibilità e della naturalezza di chi sta sul palco, a ogni livello. Perché, se è vero che ora si hanno fra le mani delle produzioni colossali che non contemplano più, semplicemente, la formula per cui un artista e la sua band salgono su un palco soltanto per suonare, la conseguenza di ciò è una rigidità di fondo che difficilmente consente di improvvisare o uscire dai binari.
(Per dire: riguardando Banana Republic – che nel 1979 rappresentava il più grande spettacolo concepito in Italia – si percepisce all’istante tutto il clima conviviale, quasi famigliare, che Dalla, De Gregori e le loro band trasmettevano, fra improvvisazioni, esecuzioni diverse fra loro, sigarette fumate fra un pezzo e l’altro e chiacchiere nei momenti meno opportuni come se non fossero davvero in scena.)
Ma perché tutto questo? Perché è da quasi un anno che in Italia gira uno show che, seppur nella sua non enorme realtà, rappresenta un cortocircuito per questo sistema. Parliamo dell’Infedele Tour di Colapesce, un concerto in cui Urciullo, ormai al terzo album, dà l’impressione di sentirsi davvero libero da vincoli, rigidità e quant’altro. Sul palco, infatti, il siciliano ride, scherza col pubblico e improvvisa, si lascia andare a sfumature e lievi scostamenti dal tracciato, modificando persino gli encore e spostando comunque in continuazione i confini del suo spettacolo, data dopo data.
Ma non si tratta di approssimazione. Colapesce, anzi, fa così perché ha idee chiare alle fondamenta, con un live curato in ogni aspetto: una scaletta che non lascia nulla al caso, ma fra saliscendi emotivi valorizza sia i nuovi pezzi (tutti, o quasi, in apertura) che i classici; una fiducia cieca nella musica, tanto che, per lui, sembra quasi che la vita si riassuma tutta negli strumenti di quelle due ore scarse di live; delle trovate sceniche essenziali, ma efficacissime (su tutte, il travestimento collettivo da preti); un impianto di musicisti, tra cui Adele Nigro degli Any Other e Mario Conte, che insieme a un repertorio consolidato consentono di fare un po’ il cazzo che si vuole.
E allora, in una serata qualsiasi, può capitare di vedere Urciullo improvvisare siparietti coi sodali, o che il pubblico chiami a gran voce l’ennesimo bis e lui decida di suonare in acustico, da solo, il fuoriprogramma Oasi, e magari anche una cover di De André (nel mio caso: La canzone dell’amor perduto), o che sebbene ci si trovi a un concerto pop i momenti più coinvolgente siano la coda di sax nevrotica e jazzata di Maometto a Milano e il silenzio assordate di Segnali di vita, tributo etereo a Battiato da quello che forse di più ne ha appreso le lezioni. Il tutto, ovviamente, senza perdere un colpo.
C’è voglia di cazzeggiare, quindi, ma anche di suonare a testa bassa, con il bisturi fra le mani, perché Colapesce con la musica vive un rapporto viscerale, e i concerti come la via essenziale per sorridere più di quanto faccia nella vita quotidiana. L’affetto, Urciullo, lo dà e lo riceve mentre si muove libero sotto le luci, imbracciando la chitarra nel labile perimetro del suo talento.
La radice di questa bivalenza, comunque, il seme di questa congiunzione fra live progettato nel dettaglio e libera naturalezza, è da ricercarsi direttamente nell’anima policroma di Colapesce: lui, bambino radicato nella profonda Sicilia e da grande orgoglioso cittadino del mondo; lui che da ragazzino prendeva il pullman dal paese per comprare Ok Computer e poi ascoltarselo in cameretta, con un occhio fisso sulla tradizione (cantautorale, ma anche melodica) e uno sull’elettronica, sull’alt-rock e su un futuro che è una scommessa.
E allora tutto si spiega, alla fine: l’Infedele Tour è il concerto liquido di un’anima dalle mille sfumature, che in inverno ha conquistato i teatri, in primavera i club, e d’estate tanto le feste di provincia quanto il Siren e il TOdays.
Il prossimo 5 ottobre, con una grande festa piena di ospiti ai Magazzini Generali di Milano, per Colapesce arriverà il congedo dall’Italia, prima che un’appendice europea metta definitivamente il punto su questa ennesima prova di spessore. E allora niente, alla fine: ci mancherai, Lore’. Torna presto.