Se quest’estate vi capiterà di sentire del super jazz a un barbecue hipster – tra una birra Ipa artigianale e un gin tonic al rosmarino – sappiate che la colpa è di Shabaka Hutchings. Il ragazzo d’oro della nuova scena inglese, insieme al collega americano di groove Kamasi Washington, ha allargato i confini della nicchia jazzistica fino alle nostre playlist di Spotify grazie a una creatività nostalgicamente free. E un consapevolezza (politica in primis) fuori dal comune, che lo ha portato a dividere la sua arte in tre progetti e tre band diverse: il trio electro-jazz di Comet is Coming, l’afro funk dei Sons of Kemet e – un gradino sopra tutti – lo spiritual jazz psichedelico di Shabaka and The Ancestors.
Abbiamo dovuto aspettare questa nuova era nel jazz, che tu rappresenti, per tornare ad associare l’impegno politico all’arte di fare dischi.
Dev’essere per il fatto che ci consideriamo più artisti che semplici musicisti, e la politica fa parte del nostro mondo. Non ci interessa solo fare dischi, vogliamo creare e avere un spirito critico su tutto quello che ci circonda, non solo sul mio sax.
Che opinione hai su questo rinascimento? Ti senti parte di una scena o addirittura di una comunità?
In questo momento in Inghilterra il jazz è diventato cool, ti può capitare di entrare in un locale e vedere un gruppo di ventenni che improvvisa, una cosa che sarebbe sembrata anacronistica – da golden era anni Sessanta – fino a un paio di anni fa. Ma soprattutto c’è un pubblico di giovani che viene a queste serate e le riempie pagando anche 25 euro. Rispetto a questa reinassance, il mio è stato un processo più lungo: sono arrivato a Londra nel 2004 e sono diventato un musicista professionista nel 2008. In questi ultimi 15 anni il jazz è passato da essere quella cosa da suonare al pub la domenica “come sottofondo”, per non fare troppo casino, fino all’hype di oggi. In mezzo c’è stato un mondo, tipo le improvvisazioni jazz sul breakbeat di dj e producer come i 4hero, te li ricordi?
Certo, e questo mi fa venire in mente un’altra scena, quella acid jazz anni ‘90, che girava attorno all’etichetta Talkin’ Loud. Credi ci sia qualcosa in comune tra quel movimento e quello di oggi?
Sicuramente la coolness (ride), ma musicalmente siamo diversissimi: noi an- diamo alle ricerca delle radici del groove, dell’essenzialità. Sono cresciuto ai Caraibi, e lì è il groove che fa la musica e che ti rende felice: parto da questi fondamenti e poi cerco di esplorare lo spazio intorno, sopra e sotto.
Stai portando avanti tre differenti progetti musicali. Quale è il tuo “final project”?
Ora è il momento dei Sons of Kemet, poi i Comet e stiamo già producendo i nuovi pezzi con gli Ancestors. Quanto al mio progetto finale, vorrei tornare ai miei studi classici di clarinetto, portare l’orchestra sinfonica nel mio jazz molto free e ritmico.