La mattina dopo ci si sveglia con un po’ di mal di testa e qualche vuoto di memoria: cos’è successo ieri sera? Poi pian piano si ricorda: Pete Doherty fuori dall’ingresso transennato del Fabrique con una Gibson acustica prende in spalla Carl Barât e canta insieme alla manciata di persone rimaste l’intro di What Katie Did.
Poi esce anche Gary, il batterista, che comincia a firmare autografi e fare foto con il pubblico. «Pete! Peeete! Foto!! Facciamo una foto!» – ma Pete è più difficile da fotografare, si muove veloce lungo la transenna scambiando qualche saluto con la calca che lo segue ovunque e, per dirlo con le parole dei fan rimasti fino a quest’ora per incontrarlo, «è fatto come una pigna». Ecco cos’è successo ieri sera: c’era il concerto dei Libertines.
Dentro ad un Fabrique rovente Pete, Carl, Gary e John attaccano senza troppi complimenti: niente gruppo spalla o intro d’atmosfera, salgono in quattro sul palco e dagli amplificatori escono gli accordi di The Delaney. Pete e Carl cantano dallo stesso microfono, Gary pesta come un ossesso, il pubblico impazzisce. Il loro nuovo disco si intitolerà Anthems For A Doomed Youth, titolo azzeccatissimo: la parola “inni” (anthems) è nel loro caso più a luogo di qualunque altra, perché è esattamente così che il pubblico li vive.
Da Time For Heroes a Music When The Lights Go Out, poi Boys In The Band, What Became Of The Liekly Lads e anche tutte le altre: una scaletta che non delude le aspettative di un pubblico “doomed” (per la maggior parte già ben oltre il secondo drink) che canta ogni parola, si mette sull’attenti e alza le mani appena riconosce gli accordi iniziali della propria canzone preferita. Qualche (ovvio) consenso in meno per le tracce che il pubblico conosce ancora poco, come Gunga Din, pubblicata solo pochi giorni fa, o Barbarians, eseguita live per la prima volta in assoluto. Carl regge il palco da Dio, Pete mostra qualche segno di stanchezza che al pubblico non dispiace: siamo di fronte all’ultima incarnazione del sex, drugs and rock ’n’ roll dopotutto, non a un cantante prog metal.
Dopo The Good Old Days escono di scena per una breve pausa, prima della quale Gary, petto nudo muscolosissimo, si ferma a centro palco per regalare al pubblico un balletto energico e un po’ demenziale, come a voler dire “ehi, io non sono stanco!”. Dopo la pausa altre cinque canzoni: Pete madido di sudore, Carl impeccabile, il pubblico incontenibile. Sul finale con Don’t Look Back Into The Sun parte il tradizionale lancio dal palco di bacchette, scaletta ed effetti personali, che i fans si litigano come preziosissime reliquie.
Poi Pete ormai stanchissimo lancia la chitarra verso il retro del palco, e il concerto finisce davvero: un concerto energico, forte, stupefacente. I Libertines possono scalare le vette delle classifiche, fidanzarsi con Kate Moss, andare in rehab dall’altra parte del mondo e anche invecchiare senza perdere il loro appeal, nonostante siano forse la formazione più iconica della scena indie contemporanea in loro non c’è niente di autocelebrativo. Sono solo quattro ragazzi a cui piace bere, divertirsi e suonare. Non cambieranno mai. E fanno bene.