Qualche giorno fa, mentre eravamo ancora tutti sotto l’ombrellone, la FIMI – che evidentemente, in vacanza, non ci è andata – ha dato l’annuncio: A casa tutto bene, l’ultimo album di Brunori Sas datato gennaio 2017, è stato certificato disco di platino.
Solo tre o quattro anni fa, quando l’indie italiano macinava numeri da schifo e parlare di certificazioni non aveva neanche senso, questa sarebbe stata una notizia con la N maiuscola, un’anomalia da far sobbalzare sulla sedia; oggi, che Calcutta riempie l’Arena di Verona e i TheGiornalisti cantano “Felicità puttana”, no. Oppure sì, procediamo con ordine.
Prima di iniziare: questo non sarà l’ennesimo articolo fuori tempo massimo sullo sdoganamento dell’indie italiano, sui consensi che sta (finalmente) raccogliendo; no, nessuno lo chiede e nessuno, grazie a dio, lo vuole più. Proviamo allora a ignorare la “scena” da cui proviene Dario (è peraltro reduce da un programma su Rai 3, veramente, evitiamo), e per compilare il nostro “cosa ci insegna il platino a Brunori” concentriamoci su due aspetti: che si tratta di un disco di platino e non di un più ordinario disco d’oro; che Brunori è un cantautore, nell’Italia del 2018.
Partiamo dal primo. Disco di platino vuol dire che, dell’album in questione, sono state distribuite (leggi: “vendute”) almeno 50mila copie, cifra impressionante nel mercato attuale; ma disco di platino vuol dire anche – da sempre e per sempre – un riconoscimento sociale forte, condensato nel premio luccicante consegnato da un Carlo Conti tutto ingessato alla serata di gala dei Wind Music Awards. Al di là degli effettivi meriti artistici, infatti, si tratta di un traguardo che possono permettersi solo i grandi nomi, e che dunque colloca Brunori Sas direttamente lì in mezzo, nell’olimpo del nazionalpopolare – alfieri dell’itpop in cima all’airplay come Calcutta e Cosmo sono fermi all’oro, per dire.
Riguardo alla matrice cantautorale, invece, è bene fare un passo indietro e tornare ai tempi in cui l’indie italiano era piccola cosa. Prendiamo l’anno domini 2013, alla vigilia della grande esplosione (che datiamo 2015, per comodità). All’epoca, una colonna portante di quella scena era formata proprio dai cantautori, dalla “leva degli anni zero”: c’era Dente, c’era Vasco Brondi, c’erano i primi Colapesce e Carnesi e c’era, ovviamente, Dario Brunori. Di lui si diceva che fosse promettente, certo, ma con un certo biasimo gli si rimproverava la somiglianza con Rino Gaetano e l’essere la versione verace di De Gregori. Un po’ ingeneroso, a rileggerlo ora: che pretendevamo? La tradizione di cantautori italiani è sacra e ingombrante al tempo stesso, non è facile reciderne il cordone ombelicale così, su due piedi.
Oggi, in ogni caso, dopo quattro album alle spalle e senza le ingenuità degli esordi, Brunori ha uno stile rodato e personale ed è l’unico cantautore in grado di arrivare al disco di platino in Italia. È l’unico cantautore, se vogliamo; perlomeno agli occhi di un certo pubblico, perlomeno di fronte al Paese che ragione per classifiche, tv e Wind Music Awards. I compagni della nidiata del 2013 sono, sì, cresciuti artisticamente, ma sono comunque rimasti nella nicchia che costituisce la fazione indie nella divisione con l’itpop. Non è, ribadisco, una questione di valore artistico, ma di puro riconoscimento sociale. Gli altri, tra cui anche Motta, che nel 2013 era ancora dei Criminal Jokers, non hanno (ancora?) l’impatto sull’immaginario collettivo che ha Brunori, che sta da tutt’altra parte.
Perché questo? Perché il suo stile non ha nulla di elitario e ha sposato da subito una semplicità (lirica e melodica) e un immaginario quasi nazionalpopolari, pur cautelandosi elegantemente con le dovute distanze, ma anche perché Dario ha intuito presto la direzione inedita che stava prendendo la cornice e l’ha seguita senza snaturarsi.
Spesso, nel caso dei nomi divora-classifiche dell’itpop che affiancano Brunori in questa nuova era, viene scomodato l’aggettivo “cantautorale”, ma a torto: Calcutta? Magari può prendere qualcosa dal cantautorato, ma è una popstar, coi ritornelli da cantare a squarcia gola e melodie robuste in bella vista; Levante? Forse agli inizi, ma oggi è anche lei una popstar con tutti i crismi; Contessa de I Cani? Non scherziamo, per quanto magari i testi possano avere qualche punto di contatto coi cantautori, è puro indie-pop.
Brunori, invece, è cantautore puro. Lo è sin dagli esordi (Vol. 1, 2009) e da lì si è evoluto, trasponendo la formula originale verso una dimensione pop più attuale e meno nostalgica, ma rimanendo, al nocciolo, sempre cantautorale. Poco importa quindi che l’ultimo A casa tutto bene (il suo lavoro più completo, manco a dirlo) sia rivestito con un indie-pop orchestrale à la Belle and Sebastian; resta un disco di cantautorato, oltretutto perfettamente calato nel contesto del 2018. Le melodie sono in gran parte canticchiabili, certo, e gli arrangiamenti hanno raggiunto una forma limpida ed efficace, ma la scena è sempre e solo dei testi, scritti e cantati con taglio da cantautore. Un pezzo come La verità, ad esempio, non ha quasi nulla di ammiccante, ma punta tutto sul messaggio che lancia. Forte di questo, Brunori racconta tutto: la società in cui viviamo, le nostre paure, l’amore e l’impegno sociale. Con una poetica semplice, da rima baciata, si guarda intorno e dentro, raccontando ciò che vede e sente e mettendosi in discussione con onestà intellettuale e candida (auto)ironia.
E questa formula è, evidentemente, l’unica attualmente in grado di assolvere al ruolo di cantautore in Italia, almeno su certi livelli. Non è un compromesso, ma un punto di svolta, e la gente pare capirlo e apprezzarlo, vista la certificazione platinata appena arrivata.
Cosa ci insegna, quindi, il disco di platino a Brunori? Che in Italia, nel 2018, anche se non sembra, il grande pubblico ha ancora voglia di cantautori che riflettano e facciano riflettere. E menomale, visti i tempi che corrono.