Avevo 8 anni quando Rapper’s Delight è andata in onda per la prima volta su una radio di Philadelphia. Erano le otto e ventiquattro di giovedì sera, dopo una cena a base di pesce, fagiolini e crema di mais. Io e mia sorella Donn ascoltavamo una stazione locale di musica soul mentre lavavamo i piatti, quando all’improvviso dalla radiosveglia JVC di mia nonna è partita una scarica di percussioni e un piano Latin sincopato che sembrava quello di Good Times degli Chic. Non potevo sapere che il mio mondo sarebbe stato stravolto al conteggio di 4,3,2…I said a hip, hop, the hippy to the hippy / To the hip hop hop, you don’t stop
La sera dopo, alla stessa ora, ero pronto con un registratore a cassetta preistorico e un quaderno bianco e nero. La stessa settimana il mio amico Aantar è diventato il mio agente e mi organizzava eventi in cui io facevo sentire quel pezzo in cambio di qualche merendina o di uno sguardo di una ragazza durante le lezioni di ginnastica. In quell’ottobre del 1979 Rapper’s Delight ha trasformato uno sfigato del liceo fanatico di musica in una superstar.
Alcuni dei pezzi hip hop più potenti di sempre sono canzoni così semplici da farti scoppiare la testa se cerchi di capirne la logica: prendete per esempio le inarrestabili due note di chitarra di Craig Mack in Flava in Ya Ear. Ho perseguitato il suo produttore Easy Mo Bee per 17 anni per capire il segreto di quella musica e volevo buttarmi dalla finestra quando ho scoperto quanto fosse semplice. Oppure il suono enorme del Roland 909 in P.S.K. di Schoolly D, un’eco che sembrava provenire da una chiesa grande otto isolati.
Se sei cresciuto con l’hip hop, questi sono suoni che hanno un enorme potere su di te. Per un’estate intera ho tentato di riprodurre nota per nota il mix di The Adventures of Grandmaster Flash in the Wheels of Steel su due giradischi giocattolo della Fisher-Price. Mio padre, poco impressionato dalla cosa, mi ripeteva: «Far sentire canzoni di altri non mi sembra un modo per guadagnarsi da vivere». Quanto poco ne sapevi, papà… Quante volte sentire un pezzo in radio per la prima volta ti faceva fermare di colpo, qualsiasi cosa stessi facendo, e poi diventava quello l’unico argomento di discussione per quattro ore.
Mi ricordo la prima volta che insieme a Black Thought ho sentito nella mensa del mio liceo Wrath of Kane o Fight the Power. Sembrava una rissa tra Pharoah Sanders e Rahsaan Roland Kirk. L’hip hop dà agli ascoltatori delle regole precise da seguire come leggi, per poi vederle cambiare ogni cinque anni. La mia reazione, ascoltando un pezzo hip hop nuovo, è cambiata di continuo. A 9 anni dicevo: «Cos’è questo?». A 14 dicevo: «Incredibile». A 22: «Un momento…ma possono farlo?». A 29: «Era un po’ diverso quando ero ragazzo, ma hey, non ci posso fare niente», oggi invece dico ancora: «Cos’è questo?». Ho visto Ice Ice Baby di Vanilla Ice dominare il mondo, poi diventare un pezzo impresentabile e infine trasformarsi in una citazione ironica che fa sorridere la gente quando la suono nei miei dj set.
Le grandi canzoni hip hop hanno il potere di tirarti fuori energia, eccitazione, rabbia e sentimenti. Può essere una canzone che fa scoppiare una rivolta nel tuo quartiere (Rebel Without a Pause) oppure un pezzo che, ascoltato in cuffia, ti fa rivedere completamente tutto quello che sapevi sull’hip hop (Ego Trippin’ di Ultramagnetic MCs). Il filo conduttore è il cambiamento continuo: le migliori canzoni hip hop non sono mai dei modelli da seguire, sono un invito all’azione, un modo per ricordare che si può far partire una rivoluzione in tre minuti. Basta tenere sempre accesa la radiosveglia.