Arrivano da Leamington, cittadina inglese definita “la piccola Londra” per le case in stile vittoriano, e hanno conquistato la stampa inglese con l’album di debutto Soft Friday, uscito all’inizio dell’anno su marchio Nettwerk: un’intrigante miscela di indie pop, psichedelia e garage rock con richiami Sixties e rimandi a band quali Curve, Jesus and Mary Chain, Mazzy Star, Warpaint. Ora, dopo tante recensioni positive e un tour con Echo and The Bunnymen, i Coves alias John Ridgard e Beck Wood stanno girando l’Europa come supporter di St. Vincent: due le tappe in Italia, il 16 novembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma e il 17 all’Alcatraz di Milano. Abbiamo raggiunto al telefono la cantante Beck per farci raccontare la storia del gruppo.
Iniziamo dal sound di Soft Friday: siete partiti con un’idea chiara in testa?
No, però John è cresciuto ascoltando un sacco di garage anni Sessanta e questo sicuramente l’ha influenzato nella scrittura dei pezzi. La musica è sua, i testi miei. Ci siamo divisi i ruoli da subito, quando abbiamo messo su la band abbiamo deciso che io sarei stata gli occhi del gruppo e lui le orecchie. Nel senso che io, oltre a cantare, mi sono occupata dell’artwork dell’album e dei videoclip, rifacendomi molto al mondo dell’arte.
A cosa t’ispiri in particolare?
All’arte degli anni Sessanta, sono affascinata dalla libertà creativa che c’era in quel periodo, all’epoca si sperimentava tantissimo, basti pensare alla Factory di Andy Warhol, un luogo pullulante di idee nuove.
La copertina dell’album è un tuo dipinto, giusto?
Sì, è un dipinto che ho realizzato in una casa su un albero in Scozia, da lassù vedevo le montagne, eravamo nella zona del Ben Nevis, e osservando il panorama mi sono immaginata un’esplosione di musica che ho tradotto in colori.
Scusa, ma come ti sei ritrovata su un albero in Scozia?
Il mio fidanzato vive là. Un giorno stavamo facendo una passeggiata, ci stavamo godendo la natura, abbiamo visto questa casetta e chiesto la chiave. Di base si tratta di un rifugio che viene spesso utilizzato da poeti e artisti: lo prendono per un periodo e ci fanno quello che vogliono. Noi ci siamo rimasti per due giorni e abbiamo dipinto tutto il tempo. Cioè, io dipingevo, il mio ragazzo guardava!
I testi, invece, come sono nati?
Beh, Soft Friday parla d’amore, nella fattispecie di ciò che si prova quando si perde un amore. Questo perché quando abbiamo fondato i Coves io e John eravamo entrambi reduci da una delusione sentimentale, stavamo vivendo un momento un po’ triste.
Vi siete conosciuti in una sala concerti della vostra città: com’è andata?
John era il manager del club, io lavoravo al box office. Insomma, lui era il mio capo. All’Assembly – il locale si chiama così – ho avuto modo di incontrare tantissimi artisti e gruppi fantastici, da Lou Reed ai Primal Scream. Fatto sta che un giorno John è venuto nel mio ufficio e mi ha confidato di voler fondare una nuova band e di voler provare a far qualcosa con me nel suo studio. Così mi ha portato là e… Sinceramente non avevamo idea di quel che sarebbe successo, abbiamo giusto provato una canzone per vedere se poteva funzionare ed è andata bene.
Immagino sapesse che cantavi.
A dire il vero ho iniziato a cantare solo tre anni fa, non è molto che lo faccio. Però, chissà, mio padre aveva una band, mio fratello anche, forse era destino, avevo questo talento nel sangue. Mi rendo conto possa sembrare strano, ma prima di allora non avevo mai pensato di fare musica né sapevo di saper cantare.
Quel giorno Lou Reed aveva chiesto un massaggio nel backstage […] Il lenzuolo su cui l’hanno massaggiato è rimasto lì e me lo sono presa io
Sul cantato avete inserito riverberi, echi…
Amo gli effetti sulla voce, creano un suono etereo. Dal vivo, in due pezzi, uso il megafono; non possiamo ancora permetterci una pedaliera per la voce, così un giorno in studio ho provato a cantare con un megafono e dato che mi è piaciuto ho pensato di fare la stessa cosa durante i concerti.
Non mi hai risposto prima: perché credi che John ti abbia scelta?
Perché ci conosciamo da tanto e non era mai stato in un gruppo con una donna. Inizialmente abbiamo semplicemente provato a fare qualcosa assieme, era più che altro un esperimento. Per un po’ non abbiamo detto a nessuno che ci vedevamo, che avevamo questo progetto in mente, l’abbiamo tenuto segreto. Poi, dopo aver registrato tre canzoni, Honeybee, No Ladder e un’altra, abbiamo deciso di farle sentire ad alcuni amici per vedere le loro reazioni e ci hanno riempito di complimenti. “Oh, cavoli, non lo sapevamo, pensavamo vi foste fidanzati!”, ci dicevano. E noi: “Sorpresa, siamo una band!” (ride; ndr).
Ho letto che avete registrato il disco in uno studio che vi siete allestiti da soli.
Sì, a due passi dall’Assembly. C’erano questi uffici vuoti, John ne ha occupato uno con alcuni ragazzi, dopodiché lo ha attrezzato assieme al nostro ingegnere del suono. In pratica abbiamo registrato tutte le tracce lì, è stato divertente, non dovendo pagare ci siamo potuti prendere il tempo necessario per sviluppare i brani nel modo giusto. Senza contare che potevamo fare tutto il rumore che ci pareva.
Prima hai detto che all’Assembly hai avuto modo di vedere Lou Reed: che ricordo ti è rimasto di lui?
Quel giorno Reed aveva chiesto un massaggio nel backstage e mentre glielo facevano si è addormentato. Ma il bello è che il lenzuolo su cui l’hanno massaggiato è rimasto lì e me lo sono presa io: ora ce l’ho sempre con me sul tourbus!