Craig Richards ha studiato pittura, ma si è ritrovato dj per caso. «Avevo solo una bella collezione di dischi, ed era un bel modo per pagare i miei quadri senza doverli esporre», mi dice in una delle sale di Fondazione Prada – una nuova biblioteca, mi dicono, con lunghe panche di legno scuro e dai sedili verdi. Ha in mano il mio registratore, e insiste per occuparsi lui dell’audio dell’intervista. «So di parlare a voce bassa, e non voglio farti stare in una posizione assurda».
Incontro lo storico resident dj del Fabric di Londra per parlare di “I Want to Like You But I Find it Difficult”, una serie di concerti organizzati negli spazi della fondazione a Milano. Richards ha interpretato il ruolo del “curatore musicale” e selezionato gli artisti – Ricardo Villalobos, Mulatu Astatke, Midori Takada e tanti altri – per una programmazione che va dall’afrobeat alla minimal, passando per l’ambient e il jazz. «Apprezzare la musica, o l’arte, non è sempre facile. Ma a volte è proprio la difficoltà a dare grande piacere», spiega.
Immagino sia strano finire di suonare a mezzanotte.
(Ride) Sì, non capita spesso. Questo è uno spettacolo diverso dal solito: è un concerto al tramonto, immerso nella luce, e c’è un’atmosfera particolare. Anche la musica è diversa da quella che suonerei in un club.
Credi che il tuo pubblico apprezzerà?
Lavorare in museo ci permette di trattare la musica nel suo complesso, senza preoccuparci dei generi. E poi oggi il pubblico è diverso: internet ha cambiato le collezioni di dischi, adesso tutti hanno accesso istantaneo a tante cose diverse contemporaneamente. La tecnologia ha trasformato gli ascoltatori.
Come?
Il senso di scoperta è diverso, la fame è diversa.
Senza questi cambiamenti sarebbe stato possibile immaginare “I want to like you but i find it difficult”?
Non credo. In passato tutto doveva essere tematizzato, proposto in maniera prosaica. Oggi, invece, è necessario essere sempre più casuali, e per riuscirci bisogna sentirsi liberi di cambiare, stile, genere e ritmo.
Quindi non c’è un filo conduttore?
In un certo senso sono io il filo conduttore (ride). Ma non fraintendermi, non ho avuto nessun colpo di genio nel pensare a Monlake e Joy Orbison. Ho 51 anni, ascolto musica da quando ne ho 16 e ho studiato arte per 7. Insomma, per me è sempre stato importante avere attorno cose stimolanti e ho scelto quelle che mi sembravano più adatte a Fondazione Prada.
È la prima volta che un tuo progetto è ospitato in un museo, e non in un club.
Mi sembra la fusione perfetta di quello che faccio. Metà della mia vita è musica, metà è arte. Anzi, sono diventato un DJ solo perché avevo una bella collezione di dischi, non è mai stato nei miei piani. Pensa che all’inizio, quando ho iniziato a guadagnare, lo vedevo come un modo per finanziare i miei quadri. Durante la settimana dipingevo, e nel fine settimana venivo pagato per divertirmi nei club.
Adesso potresti smettere di suonare e fare il pittore a tempo pieno. Ci hai mai pensato?
No. Io non ho mai avuto un piano. Forse con il tempo dovrò viaggiare di meno, ma non sono mai stato un DJ con un pubblico gigantesco, non ho mai lavorato nel mondo commerciale. Mi sento più a mio agio di fronte a 400 persone in una cantina buia. E non mi è mai piaciuto stare di fronte a tanta gente, sono una persona piuttosto timida.
Per questo rifiuti di suonare nei festival?
Sì, preferisco i club più piccoli, dove c’è il soffitto e il suono è più rifinito. Il soffitto fa bene alla musica, la trattiene. E poi non sono tipo da alzare le mani di fronte a migliaia di persone. Preferisco stare al buio, con la testa abbassata.
Perché è importante apprezzare qualcosa che di primo impatto ci disturba?
È un po’ come quando incontri qualcuno che non ti piace, e con il tempo diventate grandi amici. È importante essere aperti a diversi tipi di musica, e anche al modo in cui questa musica è proposta. Non importa quanto qualcosa sembri assurdo e casuale, lasciatevi assorbire e la ricompensa sarà più grande.
È come se questa scomodità iniziale sia necessaria per scoprire una bellezza più grande
Sì, a me è successo con il jazz. Quando ero più giovane lo ascoltavo solo perché mi fidavo dei consigli di chi mi sembrava più interessante di me. Non mi piaceva, ma ho perseverato, e con il tempo ho imparato ad apprezzarlo davvero. Credo che quella scomodità, come l’hai chiamata tu, dipenda dal fatto che ci sentiamo minacciati dalle cose che non capiamo, e le allontaniamo.