Di persona Cromo è altissimo, gentilissimo e apparentemente timidissimo. Il che in effetti è normale, considerando che ha solo vent’anni ed è appena sbarcato nella vasca di squali del rap game con il suo primo album ufficiale, Oro Cromato, uscito venerdì scorso. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze, però, perché la sua determinazione è ferrea. Cresciuto alla periferia di Genova, ha cominciato a fare rap in un’età in cui molti suoi coetanei giocavano ancora coi Pokemon, e ha perseguito testardamente il suo obbiettivo finché non l’ha raggiunto, passo per passo: dai traguardi in freestyle ai primi pezzi autoprodotti, fino alla chiamata di Donjoe e a un contratto con la major Atlantic Records.
Come sei arrivato fino a qui?
Mi sono appassionato al rap che praticamente ero un bambino, grazie a un pezzo dei Club Dogo, Boing, del 2009. Era molto esplicito e mi piaceva l’idea che in una canzone si potesse parlare di cose diverse anziché del solito sole-cuore-amore. Da lì avevo iniziato a comprare un sacco di classici dell’hip hop italiano, come 60 Hz di dj Shocca o Novecinquanta di Fritz Da Cat. Ho cominciato a scrivere le mie prime rime a dodici anni e a iscrivermi ai vari contest di freestyle, prima a Genova e poi in tutta Italia. È stata una scuola importantissima per me, mi ha insegnato a stare sul palco.
La dimensione live, per molti rapper della tua età, non sembra (più) essere così importante…
Per me lo è assoltutamente: sembro timido, ma il palco è il mio posto preferito in assoluto, e voglio spaccare. I concerti sono la parte che mi piace di più del mio lavoro. Anzi, è stato proprio durante un concerto che ho capito che davvero qualcosa era cambiato: ero al mio primo live importante, insieme ad altri rapper molto più conosciuti di me, ed ero abbastanza sicuro che quasi nessuno conoscesse i miei pezzi. Invece sotto il palco c’era tantissima gente che cantava le mie strofe a memoria. Ero preso benissimo.
Ho letto in una tua vecchia intervista che per te è importantissimo anche continuare a coltivare l’aspetto tecnico nel rap: un’altra cosa che ultimamente sembra un po’ tralasciata…
Certo, per me è fondamentale, credo di distinguermi da molti altri miei colleghi proprio per questo. I miei primi pezzi ho cominciato a scriverli proprio pensando a questo. Detto ciò, il mio disco suona molto vario, dentro ci puoi trovare di tutto. Sarà che non seguo solo la trap e i miei ascolti mi influenzano molto: adoro il Wu-Tang Clan, Gucci Mane, Post Malone… Tutta roba che non c’entra nulla l’una con l’altra.
A darti una spinta decisiva è stato anche Ghali, che ha condiviso sui social il tuo pezzo White Widow. Vi conoscevate già?
Non proprio. Un giorno mi ha scritto e mi ha fatto i complimenti per il pezzo, e poi lo ha condiviso. Mi ha fatto davvero piacere, ovviamente, e devo molto a quel post. Un sacco di gente ha iniziato a notarmi per quello, tra cui Don Joe, che mi ha contattato e mi ha chiesto di entrare in Dogozilla.
Com’è il rapporto tra te e Don Joe?
Bellissimo, mi ha dato un sacco di consigli fondamentali; con lui posso sempre confrontarmi su qualunque cosa. Per me è una doppia soddisfazione, perché ho iniziato ad ascoltare rap proprio con i Club Dogo, quindi è un po’ un cerchio che si chiude.
In un tuo pezzo, Sul Booster, dici “Se hai un cazzo di sogno rincorrilo e agguantalo”…
È questo che ho sempre provato a fare, fin da ragazzino. Ho fatto di tutto perché il sogno di diventare un rapper diventasse realtà, e vorrei trasmettere questo messaggio anche agli altri miei coetanei: non aspettate che le cose succedano, datevi da fare per farle succedere.
Hai mai avuto un piano B, se col rap non avesse funzionato?
Non proprio, perché quello che ho sempre desiderato era fare il rapper e quindi ho cercato di applicarmi in quella direzione. Diciamo che ho studiato tre anni per fare il cuoco, all’alberghiero, e anche adesso sto prendendo un diploma da sommelier, una cosa che sto portando avanti insieme a mio padre.
A proposito, visto che sei giovanissimo: come l’hanno presa i tuoi genitori la scelta di una carriera musicale?
Considera che a casa mia sono sempre stati grandi appassionati di musica: mio padre ha una mega collezione di vinili jazz e R&B che ascoltavo fin da bambino. Ovviamente all’inizio non erano proprio convintissimi, anche perché il rap non è una materia che conoscono bene, ma per fortuna Genova è piccola, perciò quando il mio nome ha cominciato a girare (e magari le colleghe di mia madre le chiedevano un autografo per i figli) si sono tranquillizzati un po’: penso che abbiano pensato qualcosa tipo “Beh, evidentemente se così tanti lo seguono è davvero portato a fare quello che fa”!
Il tuo quartiere, Molassana, non è proprio parte della Genova bene…
È un quartiere di periferia: ce ne sono di più brutti, ovviamente, ma è il classico posto in cui nulla è davvero garantito e devi sbatterti un sacco per riuscire ad andare avanti. Anche per quello ci sono tanti riferimenti ai soldi nel mio disco. Pezzi come Monetizzare o Stipendio suonano come un’aspirazione, un qualcosa che io e i miei amici avremmo sempre voluto raggiungere, e prima o poi ce la faremo.
Tra te, Tedua, Izi e Drilliguria, Genova in questo periodo è diventata una delle capitali italiane del rap, eppure fino a qualche anno fa non era neppure sulla mappa, praticamente. Cos’è cambiato, secondo te?
Sicuramente fino a poco tempo fa a Genova eravamo in pochissimi ad ascoltare rap, per non parlare del farlo concretamente. E meno si è, meno ci sono possibilità di emergere a livello nazionale. Quando ho iniziato io, se seguivi l’hip hop eri visto come una persona un po’ strana, perché quasi nessuno sapeva bene cos’era. Oggi è cambiata anche la mentalità della gente: la nostra è una città ancora un po’ provinciale, quindi quando i primi di noi hanno cominciato a fare successo, molti altri hanno iniziato a fare sul serio con la musica.
Visto che a furia di fare sul serio il sogno di diventare un rapper professionista l’hai realizzato, ormai, c’è un altro desiderio che vorresti realizzare nei prossimi anni?
Portare mio padre a visitare il Sudafrica. È sempre stato il suo, di sogno, perciò questo è il mio primo obbiettivo: esaudirlo. Per me è più importante di un disco d’oro.