Quando l’aereo da New York a Austin ha cominciato a sobbalzare in maniera violenta, facendo cadere caffè, bicchieri e liquidi bollenti ovunque, ho iniziato a maledire la INRI, la Universal Publishing, la Bpm e tutti quelli che hanno progettato in maniera impeccabile la nostra trasferta al SXSW. Ho maledetto anche la mia ambizione di suonare oltre-oceano, sfidando bufere di neve, voli cancellati, jet-lag e tutto quello che si addice perfettamente ad un profilo nevrotico-ansioso come il mio.
Una volta atterrati a Austin però è successo qualcosa di stupefacente: a sole 4 ore di volo dall’inverno newyorkese c’era ad aspettarci una meravigliosa estate di prati verdi, maniche corte, e tramonti mozzafiato. Abbiamo soggiornato in una casetta di legno su due livelli, situata nel silenzio dell’East Side, interrotto continuamente dai campanellini dei “windchimes” appesi in veranda, come se da un momento all’altro dovesse partire PlainSong dei Cure.
Il primo giorno è stato un continuo assecondare il jet-lag, tra i grattacieli della città che costeggiano il Colorado, tra il delirio della Quarta, della Quinta e della Sesta Strada, invase da personaggi assurdi da tutto il mondo, tra gli echi di mille band, dj set e performance che provenivano dai balconi, dai pub, dai giardini e dalla strada, mescolandosi in un enorme mash-up.
La prima cosa che mi ha fatto sentire a casa è stata la cordialità delle persone che abbiamo incontrato, che mi ha portato subito alla mente una situazione del tutto opposta, quando nel quartiere hippy di Copenhagen chiamato Christiania io e i miei amici siamo stati trattati malissimo e senza un motivo. Per questo sono arrivato a una saggia decisione: hipster è meglio di hippy.
È arrivato poi il momento dell’esibizione nella serata Modern Composers alla St. David’s Bethell Hall, una delle due sale di questa chiesa episcopale al centro di Austin che avrebbe ospitato alcuni esponenti mondiali di questo genere che viene chiamato “neoclassica”, in cui Darudst è spesso “incasellato”. Trovarmi a suonare dall’altra parte del mondo insieme a nomi come Chad Lawson e Martin Kohlstedt è stato un grande onore, nonostante l’aspetto neoclassico sia solo una componente del nostro progetto, che nasce sì dal pianoforte, ma che passa per l’electro più spinta e per visuals di astronavi e battaglie cavalleresche.
La nostra performance è stata anche qualcosa di teatrale, come sulle le note di Bardaginn, brano dell’ultimo disco dove io e i miei musicisti indossiamo i rullanti da marcia come se fossimo in una Quintana di un futuro lontano, mentre il costume e il trucco si accendono con la luce wood. Un aspetto visivo che sci ha portato sempre a suonare suonare in location meravigliose come il Teatro Stadsschowburg ad Eurosonic e come la St. David’s Bethell Hall ad Austin, con la sua anima di di legno e spirito che spicca in mezzo ai grattacieli di vetro.
L’atmosfera del live è stata unica. Sia alla David’s Bethell Hall così come al FlackStock Stage il giorno dopo, abbiamo avuto il piacere di suonare davanti a un pubblico attento e coinvolto. Siamo saliti al terzo posto nella Top Ten di “The Austin Buzz”, classifica che studia il movimento degli artisti più nominati tramite twitter e Facebook di tutti quelli che suonano al SXSW. Considerando che c’erano circa 2000 band, la cosa ci ha fatto davvero piacere.
Dopo gli show però ci siamo anche rilassati un po’. E ci siamo incasinati la vita. Abbiamo perso lo speech di Nile Rogers, abbiamo perso l’agente Cooper di Twin Peaks che presentava la nuova stagione, Sansa e Aria Stark di Game of Thrones in un panel, Ridley Scott e il live dei Future Islands. Questo in mezza giornata. Tra una corsa e l’altra sono però riuscito a suonare il pianoforte in un incrocio sul traffico, racimolando anche una bella mancia, poi mi sono trovato in mezzo a un freestyle con dei rapper incontrati per strada mentre gli altri della band improvvisavano beatbox e noise strani e soprattutto abbiamo iniziato quindi a prendere di mira pochi eventi con la speranza di entrare, e per fortuna i Chainsmokers li abbiamo beccati. Prendo di mira Lana del Rey che annuncia a sorpresa il suo concerto per Apple Music e la sua prima performance dopo un po’ di silenzio, ma la fila è un serpente infinito che fa il giro di due palazzi.
Allora, per recuperare la mancanza milanese, mi dirigo verso il live di Sohn e mi ritrovo allo show-case della 4AD. Mentre Aldous Harding è alla chitarra e voce incantando tutti, Sohn è accanto a me, in mezzo al pubblico col suo cappello nero. Mi avvicino per salutarlo, scambiamo due parole, qualche sorriso e ci facciamo un selfie senza che nessuno badi a noi. Non so se in Italia sarebbe mai capitata una cosa simile.
Dopo tocca a lui, un live di un’ora tra tempeste di synth, drumming e noise. Torniamo a casa soddisfatti in attesa dell’ultimo giorno, quello in cui di proposito facciamo un giro nella Texas che t’aspetti, per respirare un po’ d’atmosfera giusta. Questo è stato possibile soltanto grazie a Barbara, amica italiana che vive in Texas da 5 anni.
Tra tacos e barbecue sulle rive del fiume, la serata è trascorsa nel più rilassante dei modi, finendo a parlare di clima e di Trump. Il SXSW è stato un lunapark di colori e suoni provenienti da ogni parte del mondo e messi nel frullatore di una città che scoppia in un’estate anticipata. Io porto a casa con me due concerti meravigliosi, e la consapevolezza di un progetto che diventa sempre più solido e più forte. Spesso senza le parole si va più lontano e il codice emotivo per entrare nell’immaginario delle persone può essere semplice da trovare e individuare. Ci penso da sempre, ma al SXSW ne ho avuta l’ultima conferma.