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Dieci anni de Le Luci della Centrale Elettrica

Ieri Vasco Brondi ha annunciato la fine delle Luci. Ci lascia con un doppio disco emblematico, il testamento del cantautore che con 'Canzoni da spiaggia deturpata' ha cambiato la storia dell'indie italiano

Vasco Brondi, foto di Max Cardelli

Proviamo a vederla così: nel 2007 un ragazzo del Wisconsin, tale Justin Vernon, di lì a poco Bon Iver, si sfoga nel suo For Emma, Forever Ago, e da allora l’indie non sarà più lo stesso; un anno dopo, nel 2008, Vasco Brondi, un tipetto di Ferrara di appena 24 anni che all’epoca faceva il barista, imbraccia la chitarra e fa lo stesso alla musica indipendente italiana.

L’album, che si prese anche un Premio Tenco come “Miglior Opera Prima”, si chiama Canzoni da spiaggia deturpata, e la sua – come pure quella dell’esordio di Vernon – non rappresenta tanto una rivoluzione sonora (o meglio: rappresenta anche una rivoluzione sonora), quanto un profondo cambiamento culturale e di percezione intorno alla scena di provenienza. Perché sì, se oggi l’indie italiano è diventato it-pop, e non manca comunque di macinare numeri prima impensabili neanche nelle sue forme più aspre, gran parte del merito è senz’altro di Brondi, che all’epoca chiamò il suo progetto Le Luci della Centrale Elettrica e in poco tempo quel mondo lì dalla sua stessa nicchia. Fu il primo, per dire, ai cui concerti potevi incontrare i ragazzini che si segnavano le sue frasi sul diario, i post-adolescenti in cerca di una guida spirituale e gli adulti appassionati dei vecchi cantautori: il seme della nuova scena, a conti fatti, era già quasi tutto lì.

Oggi, a distanza di dieci anni e con così tanti mutamenti in mezzo, Le Luci della Centrale Elettrica avrebbe potuto diventare qualsiasi cosa, prendere qualsiasi direzione, e invece è rimasto l’originale, fedele a sé stesso. Questo perché, quella rivoluzione, Vasco l’ha fatta da solo, con sincerità e senza doppi fini, lontano da velleità di successo ma solo inseguendo i suoi sfoghi e omaggiando, in maniera personale (e passionale), i suoi riferimenti: De Gregori, Rino Gaetano, l’Emilia e quindi Tondelli, Ferretti e quindi CCCP (che rivedeva riflessi nel logo di un grande supermercato, indovinate quale) e CSI.

La copertina di “Tra la via Emilia e la via Lattea”, l’ultimo album de Le luci della centrale elettrica

Negli anni, gli diranno di tutto: che fosse il bardo degli “anni zero”, un poeta contemporaneo o addirittura l’erede della tradizione cantautorale italiana; ma anche la deriva peggiore che la musica italiana avesse intrapreso, un prodotto per ragazzini banale, senza spessore né contenuti, cantore di una provincia ormai consumata dai racconti degli altri.

La verità, in sostanza, non avrà mai molto senso, schiacciata com’è dall’emotività che Brondi ha sempre messo in campo, dal suo approccio passionale, ingenuo quanto basta, a volte reverenziale e naif, con una poetica e un’epica con delle sbavature ma, specie per questo, comunque sue e di nessun altro, inimitabili nel bene e nel male, figlie illegittime di un’epoca che hanno provato, coi loro modi, a raccontare. Come se lo facesse per se stesso, e al contempo fosse un alterego dei suoi ascoltatori. Neanche voleva esserlo, generazionale come è poi stato, Vasco; semmai sentimentale e simbolista come il primo De Gregori, fedele alla linea che “non c’è” come Ferretti e Zamboni. Insomma: vicino ai suoi epigoni, e più per questioni affettive e per urgenza espressiva che per emulazione, o peggio smania di successo.

Vasco Brondi, foto di Max Cardelli

Quattro dischi in curriculum, e l’intelligenza (e la pazienza) di crescere senza cambiare, di evolversi con un album ampio e difficile come Costellazioni proprio quando la formula chitarra-voce-poco altro sembrava ferma al palo, e la sua poetica di una provincia violento e insensato aggrovigliata a uno stereotipo – come “l’edera”, direbbe lui. In mezzo tante collaborazioni, tra cui un paio pure con Jovanotti, tante contaminazioni che non ne hanno mai intaccato la credibilità, semplicemente perché un ragazzo così entusiasta, ingenuo e sensibile anche dopo dieci anni non può non esserlo. Nell’ultimo, Terra, ha imbevuto la forma originale anche con la world-music, e neanche per un istante ha dato l’impressione di farlo per necessità di compiacere, ma soltanto per la curiosità di mettersi in viaggio. Dagli esordi spigolati patrocinati da Giorgio Canali agli ultimi più educati, dal cantautorato alla melodia, dall’etnica all’elettronica, Vasco non si è mai perso, e non si è mai tradito.

Ieri, dopo dieci anni di successi, ha dato a sorpresa l’addio – o meglio: ha dato l’addio al progetto de Le Luci della Centrale Elettrica. Per molti sensi, finisce un’era, e non sappiamo se proseguirà sotto altri nomi, o se magari invece si dedicherà ai libri, al cinema o ai fumetti – mondi, questi, con cui ha già avuto contatti in passato.

Per ora, ci lascia con un testamento emblematico, Tra la via Emilia e la via Lattea, un doppio album fuori il 5 ottobre: il primo sarà una raccolta di pezzi usciti in questi dieci anni, nonché è un manifesto di coerenza e onestà intellettuale; il secondo, invece, un live in studio che, almeno nell’idea, rievoca l’In quiete dei CSI, il loro addio di La terra, la guerra, una questione privata, il De Gregori riformulato di Vivavoce. E a Vasco, l’impressione è che vada benissimo così.

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