Verso la metà degli anni Settanta, Peaceful easy feeling degli Eagles appariva ormai come un ricordo lontano; un sogno piacevolmente indotto dalle droghe interrotto in maniera brusca dalla pressione del successo e della fama. Un malessere profondo stava per aprire un varco, e non poteva essere sedato da soldi, sesso o sostanze stupefacenti. La sua presa aumentò sulla band come sull’intera industria musicale e sul paese.
Con Hotel California, gli Eagles volevano descrivere gli eccessi e il comportamento auto-distruttivo che erano diventati lo status quo nel mondo del rock. Del resto, erano i più qualificati a farlo: il loro disco precedente, One of these nights del 1975, aveva tirato fuori tre singoli da Top 10 e il loro greatest hits vendette un numero di copie stratosferico, diventando il disco più venduto del ventesimo secolo negli Stati Uniti, al punto tale che la RIAA dovette inventare la certificazione di platino. «Eravamo sotto la lente del microscopio» ha detto Glenn Frey di quel periodo. «Erano tutti in attesa del nostro prossimo disco per emanare una sentenza. Don [Henley] e io sapevamo che avrebbe dovuto essere davvero convincente».
I loro sforzi crearono un ciclo di canzoni destinate ad avere successo su ogni fronte. Hotel California fece dei numeri stratosferici e ottenne il plauso dalla critica in egual misura, consolidando il passaggio della band da gruppo che suonava un pop-country senza pretese a stelle del rock & roll. Nei decenni a venire, i fan si sarebbero scervellati per trovare dei significati nei testi molto elaborati, sia introspettivi sia allegorici. Hotel California era il nome di una clinica di igiene mentale? La dipendenza da una droga? Una lite con gli Steely Dan? Parlava di satanismo?
Se dovessi sintetizzare il disco in una frase, direi che era la fine dell’innocenza, atto primo
«Il concetto era rivisitare tutto quello che la band aveva attraversato sul piano personale e professionale mentre le corse erano ancora in corso» ha detto Henley all’autore Marc Eliot. «Stavamo scoprendo un mucchio di cose sulla vita, l’amore, la carriera. Beverly Hills era ancora un luogo mitico per noi. In tal senso, divenne una specie di simbolo e la parola ‘Hotel’ stava per tutto quello che Los Angeles rappresentava. Se dovessi sintetizzare Hotel California in una frase, direi che era la fine dell’innocenza, atto primo».
In onore del quarantesimo anniversario di Hotel California, ripercorriamo alcune delle storie meno note dietro l’album dalle vendite stellari.
1. Il titolo di lavoro di Hotel California era Mexican Reggae
Anche se alla fine è diventato sinonimo del lato sinistro e nascosto di Los Angeles, la traccia che dà il titolo all’album venne scritta in un posto decisamente idilliaco. Don Felder aveva noleggiato una casa sul mare a Malibu, ed era intento a respirare la brezza dell’oceano mentre suonava la chitarra con disimpegno. «Ricordo che ero seduto in soggiorno, era una giornata spettacolare di luglio e avevo lasciato le porte aperte» ha detto a Guitar Word nel 2013. «Avevo addosso un costume da bagno ed ero seduto sul divano ancora gocciolante, fermo a pensare che il mondo era un posto fantastico in cui stare. Stavo giocherellando con una chitarra acustica a dodici corde; gli accordi di Hotel California vennero fuori in maniera spontanea.
Dopo aver composto la melodia di base, prese il suo registratore multi-traccia della TEAC per archiviare la sua ultima composizione, arricchendola poi con il basso e la drum machine durante una sovra-incisione. «Sapevo che era un pezzo particolare, ma non sapevo se sarebbe stato adatto per gli Eagles» ha ammesso a Gibson.com nel 2010. «Era una specie di reggae, quasi un pezzo di chitarra astratta rispetto a quello che girava in radio allora».
Quando gli Eagles si ricongiunsero nella primavera del 1976 per iniziare a lavorare a quello che sarebbe diventato il loro quinto disco, Felder raccattò le sue demo strumentali in modo che gli altri potessero stanarci qualche idea per una canzone. Nonostante la sua reticenza iniziale, fu proprio la melodia vagamente reggae a emergere dal lotto.
«Felder ci fece sentire una cassetta con circa una dozzina di brani diversi», ha detto Henley a Rolling Stone lo scorso giugno. «Nessuno mi colpì particolarmente prima di quella demo. Era semplice: una progressione di accordi arpeggiati di chitarra, note sostenute simili a quelle di un corno, una drum machine in 4/4. Forse c’erano anche delle percussioni latine da qualche parte. Mi sa che stavo guidando lungo Benedict Canyon Drive quella sera, o forse su North Crescent Drive (vicino al Beverly Hills Hotel) la prima volta che sentii quel pezzo, e ricordo di aver pensato “C’è del potenziale qui, penso che potremmo trarne qualcosa di interessante”».
Anche Glenn Frey, che ci ha lasciati proprio quest’anno, ne rimase impressionato. «Concordammo che si trattava di reggae messicano elettrico. Era una gran bella sintesi di stili diversi» ha detto in una puntata di In the studio with redbeard del 1992. Alla fine Mexican Reggae divenne il titolo di lavoro della canzone durante le sessioni di registrazione, prima della finalizzazione dei testi.
2. I Black Sabbath erano impegnati a registrare nello studio accanto, e il loro chiasso interruppe le sessioni degli Eagles
Per curare le nuove sessioni, gli Eagles si rivolsero al produttore veterano Bill Szymczyk che aveva lavorato al loro album precedente, One of these nights. Szymczyk era contento di rinnovare la collaborazione, ma a una condizione: voleva registrare ai leggendari Criteria Studios di Miami, lontano dalla base della band ai Record Plant di Los Angeles.
Il suo ragionamento non era solo tecnico. Un terremoto avvenuto da poco lo aveva spedito «dritto dal letto al pavimento», instillando in lui una paura intensa e la sensazione di vivere in balia del pericolo. «Il giorno del terremoto fu il giorno in cui diventai un produttore indipendente» avrebbe detto scherzando a Sound on Sound tempo dopo. Per evitare la zona sismica, aveva insistito che la band registrasse a Miami. Alla fine venne raggiunto un compromesso, e gli Eagles divisero il proprio tempo tra i due studi prescelti. «Ogni volta che eravamo ai Criteria, i ragazzi erano abbastanza contenti di essersi allontanati da Los Angeles, via da tutte quelle feste e quei parassiti» ha detto Szymczyk.
Ai Criteria vennero raggiunti dai Black Sabbath, rinchiusi nello studio accanto per lavorare al disco Technical Ecstasy. «Gli Eagles stavano registrando nella sala vicino alla nostra, ma eravamo troppo rumorosi per loro» ha detto Tony Iommi ad Uncut nel 2014. «Il suono continuava a trapelare dai muri e a interferire con le loro sessioni». La delicata ballata alla fine di Hotel California, intitolata The Last Resort, dovette essere registrata più volte a causa delle interferenze.
I Sabbath saranno stati dei fracassoni, ma gli Eagles si difendevano benissimo quando si trattava di fare baldoria. Il bassista dei Sabbath Geezer Butler ricorda di essere entrato nello studio svuotato da poco dalla band: «Prima di iniziare a registrare abbiamo dovuto grattare via tutta la cocaina dal mixer. Penso ci abbiano lasciato più di un chilo di roba lì sopra».
3. Quando si trattò di registrare Hotel California, Felder si era dimenticato cosa aveva scritto
Quando gli Eagles si chiusero nei Criteria Studios per buttare giù la base di Hotel California, era passato più di un anno dalle registrazioni su cassetta di Felder. Quando lui e Joe Walsh iniziarono a lavorare sul lungo fade della chitarra, Henley sentiva che mancava qualcosa.
«Joe e io iniziammo a improvvisare, e Don disse “No, no, fermi! È sbagliato”» ha raccontato Felder a MusicRadar nel 2012. «Io dissi “Che significa che è sbagliato?” e lui rispose “No, no, devi suonarla proprio come nella demo”. Il problema era che avevo registrato la demo un anno prima, non ricordavo neanche cosa ci fosse sopra. A complicare ulteriormente la faccenda, c’era il fatto che il nastro in questione si trovava dall’altra parte del paese, a Los Angeles. Quindi la band fu costretta a improvvisare.
«Dovemmo chiamare la mia domestica a Malibu, che prese la cassetta, la mise nello stereo e la fece suonare tenendo il telefono attaccato alla cassa». Alla fine, i risultati vennero considerati soddisfacenti. «Era abbastanza simile alla demo da appagare Don»
4. Ian Anderson dei Jethro Tull pensava che Hotel California somigliasse troppo a una delle sue canzoni
Il primo ascolto di Hotel California procurò al polistrumentista dei Jethro Tull Ian Anderson un serio caso di dejà vu. Alle sue orecchie, quella hit mondiale suonava chiaramente come una sua composizione, We used to know, tratta dal secondo disco della band prog-rock, Stand up del 1969. Il fatto che gli Eagles e i Jethro Tull avessero fatto un tour insieme nel 1972 non fece che rinforzare il dubbio che, con o senza malizia, gli avessero sottratto qualcosa. «Forse ne hanno preso un pezzo a livello inconscio, e dopo hanno inserito quella sequenza di accordi nella celebre Hotel California» ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Songfacts.
A dire il vero, il tour avvenne due anni prima che Felder, il principale autore della canzone, si unisse ufficialmente alla band nel 1974, anche se all’epoca era già amico del chitarrista fondatore Bernie Leadon e verosimilmente può essere stato a uno di quei concerti. Più tardi Felder stesso avrebbe negato di aver mai sentito We Used to Know nel periodo in cui stava scrivendo la canzone, e sosteneva di sapere pochissimo dei Jethro Tull, se non che avevano un flautista.
In ogni caso, Anderson si mostra magnanimo verso l’incidente. «Si tratta solo della stessa sequenza di accordi» dice. «Il tempo è diverso; è diversa la chiave, diverso il contesto. È una canzone molto bella quella che hanno scritto, quindi non riesco a provare che gioia per loro… non c’è amarezza o senso del plagio, anche se a volte scherzo e dico che lo accetto come una sorta di omaggio».
5. Life in the Fast Lane fu ispirata da una conversazione con lo spacciatore di Glenn Frey avvenuta a 90 miglia all’ora
Per loro stessa ammissione, il successo aveva reso gli Eagles molto esperti in qualsiasi tipo di vizio: sostanze farmaceutiche illegali, camere di hotel distrutte e intrattenimenti sessuali spregiudicati; alcune di quelle notti hanno ispirato testi indimenticabili. Uno degli apici del disco venne suggerito da una gita in macchina particolarmente rocambolesca di Glenn Frey con il suo rifornitore di droghe.
«Ero seduto sul sedile posteriore di una Corvette con uno spacciatore, diretto a una partita di poker» ha ricordato nel documentario The history of the Eagles del 2013. «A un certo punto mi sono accorto che stavamo andando a novanta miglia all’ora e mi sono dovuto addirittura tenere! Gli ho detto “Ehi, che cavolo stai facendo”. Lui ha riso e risposto “life in the fast lane!” (ndr, una vita nella corsia preferenziale). Pensai che sarebbe stato un buon titolo per una canzone».
Frey rimase attaccato a quella frase per mesi finché un giorno, durante le prove, dalla chitarra di Joe Walsh non emerse un riff davvero pesante. Quel riff lo inchiodò. Chiese a Walsh di ripeterlo, e presto si rese conto che stava sentendo il suono di una vita nella corsia preferenziale. Da quel momento la canzone iniziò a prendere forma.
La traccia finita fece sì che Frey si avvicinasse troppo alla realtà alimentata dalla droga in cui versava la band. «Faticavo a sentire “Life in the fast lane” mentre la stavamo registrando perché in quel periodo mi drogavo molto, e la canzone mi dava la nausea» ha detto a Rolling Stone nel 1979. «Cercavamo di dire che la cocaina non è un granché. Ti si rivolta contro. Mi ha distrutto i muscoli della schiena, incasinato i nervi, rovinato lo stomaco e reso paranoico».
6. All’inizio Victim of Love doveva cantarla Don Felder
Oltre alla title track, il contributo principale di Felder a Hotel California fu l’incessante “Victim of Love”, che rappresentava un suono più grezzo per la band. «Cercavamo di muoverci in una direzione più heavy, distante dal country rock» ha detto a Songfacts. «E così ho buttato giù delle idee per sedici o diciassette canzoni un po’ più rock & roll, e Victim of Love era una di quelle. Ricordo di essere entrato in studio e di averla registrata con cinque persone che suonavano live. Le uniche cose che non vennero registrate nella sessione dal vivo furono la voce e i cori armonizzati. Tutto il resto era live».
In omaggio alla genesi della canzone, la frase “V.O.L is a five piece live” venne incisa nel runout groove dell’album, segnalando che Victim of Love era stata registrata dai cinque Eagles dal vivo. Il messaggio, inciso da Bill Szymczyk, voleva essere una risposta aspra ai critici che accusavano la band di essere troppo chirurgica e privi di anima in studio.
Nelle versioni originali della canzone c’era Felder alla voce, ma alcuni membri della band non erano soddisfatti dai risultati. «Era molto talentuoso alla chitarra, ma Don Felder non era un cantante, » ha detto Frey nel documentario The history of the Eagles. Henley gli fece da spalla. «Felder la cantò dozzine di volte nel giro di una settimana, lo faceva in continuazione. Ma non era all’altezza degli standard della band».
Il compito di dargli la notizia venne affidato al manager Irving Azoff durante una cena, mentre Henley registrava la parte vocale nello studio. «Fu un po’ dura da buttare giù. Mi sentii come se Don mi stesse portando via la canzone» ha detto Felder nel documentario. «Ma non aveva senso mettere a confronto la mia voce con quella di Don Henley».
7. Durante il tour di Hotel California, Don Henley si portò dietro il suo materasso
Per vincere le estenuanti tabelle di marcia dei tour, molte band fanno cose inusitate nel tentativo di simulare il comfort di casa mentre sono on the road. Gli Eagles non facevano da eccezione, noleggiando addirittura un fornitissimo jet privato per il loro viaggi. Ma il capo elettricista della squadra, Joe Berry, ricorda soprattutto la richiesta speciale di Henley per il tour di Hotel California. «Insistette per avere un materasso a due piazze disponibile a tutte le ore, dovevamo trascinarlo ovunque» ha detto a Marc Eliot in To the limit: the untold story of the Eagles. «La sarta del tour aveva creato una custodia speciale con dei manici, in modo che fosse più facile imballarlo nel furgoncino ogni sera. Era il letto di Don, lo seguiva ovunque».
Henley difende quest’apparente stravaganza ricollegandola a un dolore atroce alla schiena peggiorato dalle esibizioni notturne. «Tenevo il corpo in una posizione tale che la spina dorsale si è disallineata» ha spiegato a Modern Drummer. «Tra suonare la batteria e tenere la bocca davanti al microfono, contorcevo tutto il corpo. A un certo punto degli anni Settanta non riuscivo proprio a dormire».
Il disagio non veniva alleviato dalla scarsa qualità dei materassi dei posti in cui dormivano. «I materassi degli alberghi erano terribili; la cosa peggiore nella stanza» ha detto a Eliot. «Così mi sono portato dietro il mio e l’ho fatto trasportare con gli strumenti». Purtroppo i concierge non erano così comprensivi con la schiena malridotta di Henley. Stando a Berry, il materasso «non venne mai usato, perché nessun hotel ci permetteva di portarlo dentro».
8. La foto di copertina venne scattata dallo stesso autore di quella di Abbey Road dei Beatles e Who’s Next degli Who, e fece quasi andare la band in tribunale
Per dare vita all’allegorico Hotel California, gli Eagles assoldarono i servizi dell’art director inglese Kosh (alias John Kosh), l’artefice della straordinaria copertina di Abbey Road dei Beatles, quella di Who’s Next degli Who, di Get Yer Ya-Ya’s Out! dei Rolling Stones e di tante altre. Dopo aver sentito una versione abbozzata della title track, gli venne data una semplice indicazione. «Don voleva che scovassi e ritraessi l’Hotel California, e lo rappresentassi con un taglio leggermente sinistro» ha ricordato Kosh in un’intervista del 2007 per Rock and Roll Report.
Girò varie location con il fotografo David Alexander, mettendo insieme una lista di edifici adatti. Il Beverly Hills Hotel su Sunset Boulevard risultò chiaramente il favorito, ma eliminare tutte le tracce della sua facciata luminosa e ariosa da resort sarebbe stata una sfida impegnativa.
«Per ottenere la foto perfetta, io e David ci sporgemmo nervosamente da una autogru a cestello penzolante su Sunset Boulevard nell’ora di punta, scattando foto alla cieca per via del sole» dice Kosh. «Salimmo con le nostre Nikon e scattammo a turno, penzoloni e pronti a ricaricare la macchina. Usammo della pellicola Ektachrome High Speed mentre la luce iniziava a svanire. Quella pellicola diede una granularità notevole alla foto finale».
L’istantanea scelta, catturata nella cosiddetta «golden hour» proprio prima del tramonto, divenne una delle copertine più riconoscibili della storia del rock. Ironicamente, furono in molti a non riconoscere il famosissimo hotel. Quando si sparse la voce sulla vera identità dell’edificio, i rappresentanti della prestigiosa struttura non si rivelarono molto contenti. «Mentre le vendite di Hotel California andavano alla grande, gli avvocati del Beverly Hills Hotel mi minacciarono con una diffida» ha detto Kosh, «finché il mio avvocato non specificò che le richieste di prenotazione dell’albergo erano triplicate dall’uscita dell’album»
9. La band snobbò i Grammy, assistendo alla vittoria dalla sala prove
Gli Eagles vennero nominati per diversi Grammy nel gennaio del 1978, incluso il prestigioso Record of the Year per Hotel California, ma Irving Azoff non cadde nella retorica stando alla quale «è un onore essere nominati». Nonostante le vendite astrali, l’immagine della band era stata messa a dura prova nella stampa musicale mainstream e lui era riluttante a sottoporla a un’altra umiliazione. Così quando il produttore dei Grammy Pierre Cossette chiese alla band di suonare per il ventennale della manifestazione, Azoff rifiutò. L’unico modo affinché la band potesse suonare o partecipare era la garanzia che Hotel California vincesse il premio.
Manipolare i premi era ovviamente fuori questione, quindi Azoff suggerì di nascondere la band in un camerino nascosto, da cui gli Eagles sarebbero emersi solo nel caso avessero ottenuto il premio. Questo piano venne rifiutato, così come l’opzione che fosse un altro artista a ritirarlo eventualmente al posto loro (Jackson Browne e Linda Ronstadt vennero nominati come possibili surrogati).
Quando gli Eagles alla fine vinsero per davvero, il presentatore Andy Williams rimase in piedi ad aspettare invano che qualcuno che si facesse avanti. Azoff preparò un comunicato in tutta fretta dicendo che la band era a Miami per lavorare al nuovo disco, concludendo l’annuncio con uno sprezzante: «Quello è il futuro, questo è il passato». Più tardi, il chitarrista Timothy B. Schmit disse che avevano guardato la trasmissione nel bel mezzo delle prove. Se erano delusi dal non essere lì in persona, non lo diedero a vedere. «La sola idea di una gara per stabilire chi è ‘meglio’ non ci piace affatto» disse Henley al Los Angeles Times.
10. Il produttore di Taxi Driver e Incontri ravvicinati del terzo tipo voleva trasformare Hotel California in un film
«Quando concepimmo la canzone Hotel California lo facemmo pensando che aveva una qualità cinematica, tipo Ai confini della realtà» ha confessato Frey una volta in un’intervista alla radio BBC2. «Un verso dice che c’è un ragazzo sull’autostrada e il verso successivo parla di un albergo visibile da lontano. Poi compare una donna. Poi il ragazzo entra dentro l’albergo… si tratta di singole inquadrature messe insieme, e tu ne trai la conclusione che vuoi».
La qualità cinematica della canzone attirò l’attenzione di Julia Phillips, che fece la storia nel 1974 diventando la prima produttrice donna a vincere un Oscar per La Stangata con Paul Newman e Robert Redford. A quello seguirono una serie di successi notevoli come Taxi Driver e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Entro la fine del decennio, Phillips aveva iniziato a fantasticare su un adattamento del singolo da classifica degli Eagles. Un meeting preliminare con Azoff condusse a una sorta di accordo di pre-produzione, ma le relazioni si raffreddarono quando Phillips fece domande sulla causa legale sul copyright della canzone che la band aveva intentato contro il vecchio manager David Geffen e la Warner Bros. Records.
Henley e Frey accompagnarono Azoff al meeting successivo che, stando a tutti, fu davvero spiacevole. Nel suo famigerato memoir You’ll never eat lunch in this town again, Phillips ritrae le rockstar come persone arroganti e cocciute, con un debole per la cocaina. In ogni caso, Henley contesta questa interpretazione in To the limit. «Glenn e io ricordiamo benissimo quel giorno. Eravamo andati a casa sua con riluttanza… ci sedemmo lì, gentili ma non troppo amichevoli. Eravamo troppo accorti per essere amichevoli. Nello sforzo di tirarci su di morale e creare un clima cameratesco, lei tirò fuori un enorme posacenere pieno di cocaina e ce ne offrì un poco, e noi dicemmo di no; non la conoscevamo bene ed era un incontro d’affari. Era troppo presto a quell’ora del giorno per noi. La nostra reazione la lasciò stupefatta».
A prescindere da come andò, l’accordo per il film era destinato a naufragare. Come per la mancata apparizione ai Grammy, la band non se ne fece troppo cruccio. «Non volevano davvero vedere Hotel California trasformato in un film» ha ammesso a Eliot una figura vicina alla band. «Nutrivano sospetti verso l’industria cinematografica. Dopotutto, Hotel California parlava proprio di quello. Ricordo che Henley si mostrò molto riluttante sin dal primo giorno. Essendo il control freak che è, sapeva che non sarebbe riuscito a controllare la produzione di un film, e aveva paura di vedere il suo lavoro migliore e più intimo ridotto in una sitcom».