Rolling Stone Italia

Dieci cose che non sapevi su ‘The Velvet Underground and Nico’

I riff rubati, le idee folli di Warhol, lo studio disastrato del Greenwich Village e tutto quello che ha influenzato il leggendario debutto della band con un album che cambiò per sempre il rock
The Velvet Underground with Nico

Anche dopo mezzo secolo The Velvet Underground and Nico rimane la quintessenza di un certo modo di intendere la controcultura. Non Sgt. Pepper ma questo disco inquietante e complesso, fortemente radicato a New York City. Pubblicato il 12 Marzo 1967, il debutto dei Velvet Underground ha gettato luce sui lati più nuovi, possibili e oscuri dell’essere umani. Rafforzato dall’influenza di Andy Warhol e dall’esotico contributo vocale di Nico, il disco è la dichiarazione di indipendenza – innovativa, senza compromessi, lontana dalle classifiche – di Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker. The Velvet Underground and Nico, per un sacco di ragioni diverse, rappresenta il primo vero disco alternativo della storia della musica leggera.

A più di cinquant’anni dalla pubblicazione suona ancora incredibilmente originale, è ancora ispirazione e modello per tantissima musica diversa, dal punk lo-fi all’avantgarde più puro. Di questo e molto altro parlano i 10 aneddoti che abbiamo selezionato per voi.

1. La prima collaborazione di Lou Reed e John Cale era una versione di The Twist
La carriera musicale di Lou Reed è iniziata nel 1964, quando è stato assunto come staff songwriter per Pickwick Records, un’etichetta di New York specializzata in brani da classifica. «Ci limitavamo a sfornare canzoni; tutto qui», ha detto Reed nel 1972. «Nessuna hit. Quello che facevamo era sfornare dischi copiati».

Quando le piume di struzzo sono diventate trendy, Reed ha deciso di scrivere un brano-parodia di tutte quelle canzoni che seguivano questa moda. The Ostrich è un pezzo divertente, unico, caratterizzato dagli indimenticabili versi d’apertura: “Put your head on the floor and have somebody step on it!”. Mentre scriveva la canzone, Reed ha accordato tutte le corde della chitarra sulla stessa nota, l’effetto era quello di un drone mediorentale. «L’idea era di un tipo della Pickwick, io me ne sono appropriato,» ha detto a Mojo nel 2005. «Suonava divinamente. Scherzavo quando dicevo che ci avrei scritto una canzone sopra».


Reed ha registrato la canzone insieme ad un gruppo di turnisti, pubblicandola con il nome The Primitives. Nonostante lo stile non proprio ortodosso, alla Pickwick notarono il potenziale del brano e lo pubblicatrono come singolo. Le vendite furono inaspettatamente positive, tanto che l’etichetta decise di fondare la band che l’avrebbe suonato dal vivo. Lou Reed, quindi, ha iniziato a cercare i membri di questo nuovo complesso, valutando sia le abilità musicali che l’attitude. Ha trovato entrambe le cose in John Cale.

I due si sono incontrati ad un house party a Manhattan, Reed venne subito attratto dai lunghi capelli di Cale, in pieno stile Beatles. Il giovane aveva una formazione classica, si era trasferito in città per studiare la viola con il compositore d’avanguardia La Monte Young. Intrigato dal suo curriculum, Reed l’ha invitato nei Primitives. Intrigato dalle opportunità economiche, Cale ha accettato.

Una volta iniziate le prove per suonare il brano, Cale si sentì sorpreso nello scoprire che l’accordatura-Ostrich produceva un suono simile a quelli che cercava con Young. I due, chiaramente sulla stessa lunghezza d’onda, hanno legato anche umanamente. «Incontravo spesso Lou in qualche caffè», ha detto Cale nel documentario del 1998, American Masters. «Mi preparava meravigliose tazze di caffè, mi faceva accomodare e mi interrogava sul significato di quello che facevo a New York. In quei momenti le nostre menti si sono incontrate per davvero».

2. The Black Angel’s Death Song ha fatto licenziare la band
Sterling Morrison si è unito al duo dopo aver incontrato Reed per caso sulla metro. I due erano compagni all’Università di Syracuse. Insieme a Cale e ad un suo compagno del collettivo Theater of Eternal Music, hanno formato una band. Non avevano ancora trovato il nome giusto – oscillavano tra The Primitives, The Warlocks e Falling Spikes, prima di scegliere il nome che tutti conosciamo ispirati da un tascabile pulp – ma registrarono diverse demo nell’appartamento di Cale. Era l’estate del 1965.

I neonati Velvet Underground erano gestiti dal giornalista esperto di musica rock, Al Aronowitz, che è riuscito a farli esibire in una scuola del New Jersey. Questo irritò parecchio MacLise, uno che non voleva dover essere in nessun posto ad un orario preciso. Una volta scoperto che la band sarebbe stata pagata ha lasciato il gruppo, accusando tutti gli altri di essersi venduti. La band, senza batterista, era disperata e chiese aiuto ad un amico di Morrison, Jim Tucker. La sorella Maureen (conosciuta come “Moe”) suonava ed era disponibile. La formazione tradizionale dei Velvet era pronta.


La palestra della scuola non era il posto ideale per far suonare la band. «Suonavamo ad un volume così assurdamente alto che la maggior parte del pubblico – insegnanti, studenti e genitori – è fuggito urlando», ricorda Cale in American Masters. Successivamente, Aronowitz riuscì a piazzarli come resident band al Cafè Bizarre, nel Greenwich Village. Il nome del posto non piaceva né al proprietario né ai clienti, trovavano suonasse male. Il gruppo cercò di adeguarsi alla situazione inserendo nel repertorio alcuni standard. «Suonavamo sei sere a settimana al Cafè Bizarre, diverse scalette per volta, 40 minuti di repertorio e 20 di pausa e poi ricominciavamo», ha raccontato Morrison durante un’intervista nel 1990. «Oltre ai nostri brani, suonavamo delle cover – Little Queenie, Bright Lights Big City… le canzoni R&B che piacevano a me e Lou».

Dopo tre settimane la noia era insopportabile. «Una sera abbiamo suonato The Black Angel’s Death Song e il proprietario ci ha detto: “Se la suonate di nuovo siete licenziati!” Abbiamo cominciato la scaletta successiva con quel brano», ha raccontato Morrison a Sluggo!. L’auto-sabotaggio ebbe successo e la band fu liberata dall’impegno – non prima, però, di attirare l’attenzione di Andy Warhol.

3. Il co-produttore del disco non accettò di essere pagato con dei soldi ma con un quadro di Andy Warhol
Ai tempi Warhol, già noto come pittore, scultore e regista, stava per trasformare la sua Factory in un tempio del rock&roll. Consigliato dall’amico Paul Morrisey, il genio 37enne della pop-art è andato a vedere i Velvet Underground al Cafè Bizarre. Subito dopo il concerto si è proposto come manager. Il titolo avrebbe subito perso il suo significato originario, ma c’è da dire che Warhol ha contribuito ad alcuni cambiamenti del sound della band. Spaventato dalla mancanza di glamour della band suggerì l’introduzione di un nuovo membro, la modella tedesca Nico. La proposta non fu accolta con entusiasmo – soprattutto da Reed – ma la band si fece convincere e la ragazza entrò nella formazione.

Una volta ribattezzati The Velvet Underground with Nico, Warhol ha iniziato a far suonare la band all’interno di esposizioni multimediali, l’Exploding Plastic Inevitable: uno strano matrimonio tra musica underground, cinema, danza e luci. Ad aiutarli c’era il 27enne Norman Dolph, un DJ e fonico della Columbia Records. «Lavoravo con una discoteca mobile – la prima o la seconda in tutta New York», ha detto Dolph a Joe Harvard. «Ero fissato con l’arte, mi piaceva portare la musica nelle gallerie, alle mostre e alle esibizioni. Mi piaceva chiedere di essere pagato in opere, non con denaro. Così ho conosciuto Andy Warhol».

Nel 1966 Warhol ha deciso che la band era pronta per entrare in studio. Non sapeva niente di queste cose, quindi si è rivolto a Dolph. «Quando Warhol mi ha detto che voleva fare un disco con quei ragazzi gli ho detto: “Oh, ci penso io. Nessun problema, lo faccio in cambio di un quadro”». Ha detto durante la sua intervista in Sound on Sound. «Avrei potuto chiedere in cambio soldi o diritti d’edizione, ma invece ho chiesto un’opera d’arte. Lui era d’accordo».

Dolph dovette prenotare uno studio e farsi carico di parte dei costi. Si affidò a dei colleghi della Columbia per riuscire a pubblicare il disco. Il pagamento era una delle tele della serie Death and Disaster. «Un quadro meraviglioso. Purtroppo l’ho venduto nel ’75. Stavo affrontando un divorzio, l’ho venduto per $17,000 dollari. Mi ricordo che all’epoca pensai: “Lou Reed non ha ancora guadagnato una cifra simile per il suo disco”. Se avessi tenuto il quadro ora varrebbe 2 milioni di dollari».

4. Il disco è stato registrato nell’edificio che ha poi ospitato lo Studio 54
Durante il suo lavoro alla Columbia, Dolph aveva spesso a che fare con piccole macchine per incidere i vinili, ma non aveva delle vere e proprie pressing plants. Si è quindi rivolto a uno dei suoi clienti, Scepter Records, un’etichetta conosciuta per aver pubblicato singoli degli Shirelles e di Dionne Warwick. Gli uffici della Scepter, al 254 West 54th Street di Manhattan, erano famosi per contenere anche uno studio di registrazione.

Nonostante i Velvet non fossero esperti di incisione, non serviva un esperto per capire che la sala d’incisione fosse messa molto male. Lou Reed ha scritto nelle note che accompagnano il box set Peel Slowly and See che «La sala era una via di mezzo tra un posto da ristrutturare e uno da demolire… Le mura erano distrutte, c’erano buchi nel pavimento ed era tutto marcio». Cale, nella sua autobiografia del 1999, ricorda il posto in maniera simile: «L’edificio era quasi condannato. Le assi del pavimento erano tutte saltate, i muri erano andati e c’erano solo quattro microfoni funzionanti».

Non era una cosa glamour, a malapena funzionava, ma per quattro giornate del 1966 gli studi della Specter Records hanno ospitato il grosso delle session di The Velvet Underground and Nico. Warhol aveva un ruolo marginale nelle registrazioni, ma sarebbe spesso tornato in quel posto, in quell’edificio che poi sarebbe diventato lo Studio 54.

5. Warhol voleva rigare tutte le copie esattamente sul punto in cui era incisa I’ll Be Your Mirror
Andy Warhol è ufficialmente il produttore di The Velvet Underground and Nico, ma il suo ruolo era molto più vicino a quello di un produttore cinematografico; aveva trovato il progetto, raccolto il capitale e assunto la troupe per far sì che diventasse una cosa reale. Andava raramente a trovare la band durante l’incisione e, quando succedeva, Reed lo ricorda come «Seduto dietro il banco, guardava affascinato le luci… Non sapeva niente di come si facesse un disco. Stava seduto lì e diceva ‘Ooooh questo è fantastico.’»

Il mancato intervento musicale di Warhol è stato un grande regalo per i Velvet Underground: «Il vantaggio di avere Andy Warhol come produttore era che i fonici, dato che avevano a che fare con lui, non si permettevano di toccare nulla, lasciavano tutto in purezza», ha detto Reed in un episodio del 1968 del South Bank Show. «Dicevano cose tipo “Così va bene, Sig. Warhol?” E lui rispondeva “Oh, si certo!” Siamo riusciti ad avere totale indipendenza e libertà creativa già al primo disco».

Nonostante non abbia mai provato a cambiare troppo l’immagine della band, Warhol fece i suoi suggerimenti. Una delle sue idee più eccentriche era per I’ll be Your Mirror, la ballad scritta da Lou Reed per Nico, ma non è mai stata messa in pratica. «Voleva mettere una crepa su tutte le copie, esattamente sul punto in cui era incisa I’ll Be Your Mirror, il pezzo non si sarebbe mai fermato», ha spiegato Reed nel libro di Victor Bockris, Uptight: The Velvet Underground Story. «Avrebbe suonato all’infinito, saresti dovuto andare tu manualmente a togliere la puntina».

6. There She Goes Again contiene un riff rubato a Marvin Gaye.
L’esperienza di Reed alla Pickwick lo ha reso esperto del linguaggio della musica pop. Spesso affogato dagli arrangiamenti sperimentali e dai testi provocatori, il suo talento per la melodia è facilmente percepibile ascoltando Sunday Morning, l’opener del disco. Luminosa, ariosa e cantata da Reed e non da Nico, la linea di basso che apre il brano è una citazione a Monday, Monday dei Mamas and the Papas, un brano che spaccò le classifiche nell’aprile del 1966.

Anche There She Goes Again contiene un riferimento alla musica da classifica, un riff preso di peso dal genio della Motown, Marvin Gaye. «Il riff è una cosa soul, un misto tra Hitch Hike di Marvin Gaye e gli Impressions», ha ammesso Cale ad Uncut, nel 2012. «Era la canzone più semplice di tutte, Lou l’aveva scritta mentre lavorava alla Pickwick».

Si tratta, inoltre, della prima canzone della band a diventare una cover, in Vietnam. Un gruppo di militari americani, che suonavano sotto il nome di Electric Banana, aveva ricevuto una copia di The Velvet Underground and Nico da un amico che pensava avrebbero gradito la banana in copertina. Gradirono anche la musica e decisero di registrare una cover di There She Goes Again. Non volevano aspettare di tornare negli States, quindi hanno costruito uno studio nella giungla, una cosa fatta con pezzi di legno, tende, stecche di bambù. Alimentavano gli amplificatori con un generatore a gas.

7. La batteria del climax di Heroin è sbagliata
La traccia più discussa del disco è anche una delle più antiche, scritta da Reed mentre frequentava l’Università di Syracuse, quando suonava con gruppi folk e sperimentava sostanze illegali. Utilizzando le tecniche giornalistiche imparate all’università e mescolandole con Naked Lunch di William S. Burroughs, Reed ha scritto dei versi che raccontavano l’esperienza dell’eroina con grande chiarezza e un distacco inquietante.

Lou Reed aveva cercato di registrare il brano durante i suoi giorni alla Pickwick Records. «Mi chiudevano in una stanza e dicevano: “Scrivi 10 brani surf”», ha detto Reed a WLIR nel 1972. «Ho scritto Heroin e ho detto: “Ehi, ho una cosa per voi!” Mi dissero che non sarebbe mai uscita, mai». Tutte queste limitazioni sparirono quando la band cadde sotto la protezione di Andy Warhol.

Lavorare in studio si rivelò essere una sfida dura, soprattutto registrando Heroin e il suo finale. Maureen Tucker perse il filo della composizione, affogata nella cacofonia e nel delirio strumentale, arrivò persino a poggiare le bacchette. «Nessuno se ne accorge, ma la batteria si ferma proprio in mezzo al brano», ha detto la batterista nel documentario del 2006 The Velvet Underground: Under Review.

«Nessuno pensa alla batterista, pensano tutti ai suoni di chitarra e al caos, nessuno pensa alla batterista. Beh, quando il brano è arrivato al suo punto più violento non riuscivo a capire niente. Non sentivo nessuno. Quindi mi sono fermata e ho pensato “Beh, ora si fermeranno e mi chiederanno: che succede, Moe?” Nessuno si è fermato! Quindi ho ricominciato a suonare».

8. Lou Reed ha dedicato European Son al suo mentore del college, un uomo che odiava la musica rock
Una delle figure più importanti per la formazione di Lou Reed è stato Delmore Schwartz, poeta e autore che gli ha fatto da professore mentre frequentava l’Università di Syracuse. L’autore è riuscito, grazie al suo spirito cinico e amaro, a convincere Reed della bontà della sua scrittura. «Delmore Schwartz è l’uomo più infelice che ho conosciuto in tutta la mia vita, e il più intelligente… finché non ho incontrato Andy Warhol», ha detto Lou Reed allo scrittore Bruce Pollock nel 1973. «Una volta, ubriaco in un bar di Syracuse, mi disse: “Non svenderti, Lou, ti vengo a prendere” Io all’epoca non avevo pensato proprio a niente, figuriamoci svendermi».

Suonare il rock&roll, nella testa di Schwartz, era esattamente come svendersi. A quanto pare disprezzava quella musica – soprattutto i testi – ma Reed decise comunque di dedicare al suo mentore parte della sua prima vera opera d’arte. Scelse European Son perché era il brano meno rock di tutto l’album. Dopo 10 versi la canzone sprofonda nel totale caos avantgarde.

Schwartz non ha mai ascoltato il brano. Distrutto dall’alcolismo e dalla malattia mentale, l’uomo ha passato i suoi ultimi giorni da recluso, in un hotel disastrato di Manhattan. Lì è morto di infarto l’11 Giugno 1966, tre mesi dopo le registrazioni di European Son. Isolato anche in punto di morte, il suo corpo è rimasto per due giorni all’obitorio, non identificato.

9. Il retro copertina fece esplodere una battaglia legale che rallentò la pubblicazione del disco
Avere Andy Warhol come produttore presentava parecchi vantaggi, uno su tutti la certezza di una copertina pazzesca. Mentre il coinvolgimento musicale dell’artista era minimo, la parte visuale era farina del suo sacco. Annoiato dalle immagini statiche, Warhol immaginò l’illustrazione adesiva della banana, sotto alla quale ci sarebbe stata un’altra banana, rosa (dalla forma vagamente fallica). Sopra all’adesivo compariva la scritta “peel slowly and see“, l’unico testo presente sull’immagine oltre al nome di Warhol, scritto in basso in Coronet Bold – la sua firma sul progetto dei Velvet Underground.

Avere un originale di Warhol come copertina fu molto importante per Verve, la sussidiaria di MGM che aveva acquistato i diritti di distribuzione del disco. Avevano investito parecchio per acquistare una macchina capace di produrre quello che l’artista aveva richiesto. Ironicamente fu il retro, molto più tradizionale, a scatenare il panico legale: si trattava di una fotografia della band mentre si esibiva durante Exploding Plastic Inevitable a Norfolk, in Virginia. Proiettato sulla band era visibile Eric Emerson, ritratto durante il film di Warhol Chelsea Girls. Emerson era stato recentemente arrestato per possesso di droga e aveva bisogno di soldi, quindi ha minacciato l’etichetta di denunciare tutti per uso non autorizzato della sua immagine.

Piuttosto che accontentare le richieste economiche dell’attore – a quanto pare $500,000 dollari – la MGM bloccò la produzione del disco per capire se potesse eliminare l’immagine dal retro. Le copie del disco furono ritirate e le prospettive commerciali del tutto fortemente compromesse. «Tutta la storia di Eric fu un vero fiasco per noi, e la prova definitiva di quanto stupidi fossero alla MGM», ha detto Morrison a Bodricks. «La loro risposta fu togliere il disco dagli scaffali e metterlo in cantina per alcuni mesi, mentre provavano a togliere Eric dalla foto. Il disco è sparito dalle classifiche subito, a giugno, proprio mentre stava per entrare nella Top 100. Non è mai tornato in classifica».

10. Il ritardo di pubblicazione ha acceso un odio intenso – e spesso esilarante – di Sterling Morrison per Frank Zappa
Le canzoni dell’album erano pronte a maggio 1966, ma una serie di problemi logistici – tra cui il problema della copertina – e promozionali rallentarono la pubblicazione dell’album di quasi un anno. Le circostanze esatte rimangono un mistero, ma invece che incolpare Warhol o gli executive di MGM, la band se la prese con uno strano bersaglio: il loro collega della Verve/MGM, Frank Zappa.

La band pensava che Zappa avesse usato i suoi contatti con l’etichetta per rallentare il disco, disco che avrebbe dato fastidio all’opera appena incisa con i Mothers of Invention, Freak Out. «Il problema erano Frank Zappa e il suo manager, Herb Cohen», ha detto Morrison. «Ci hanno sabotato in molti modi diversi, volevano essere i primi a pubblicare un disco freak. Noi eravamo così ingenui. Non avevamo un manager che sarebbe andato ogni giorno dall’etichetta per velocizzare la produzione». Cale sostiene che la ricchezza di Warhol abbia influenzato l’atteggiamento dell’etichetta. «Il promotional department della Verve pensava, “Niente dollari per i VU, tanto hanno Andy Warhol. Diamo tutto a Zappa”» ha scritto nelle sue memorie.

Qualunque sia la verità, Morrison ha continuato a serbare rancore per Zappa per tutta la sua vita, facendo un bel niente per nasconderlo nelle interviste. «Zappa non sa scrivere i testi. Nasconde le sue lacune musicali facendo proseliti di tutti questi gruppi», ha detto a Fusion nel 1970. «Non capisco il senso delle sue composizioni. Non so, non mi piace la sua musica… Penso che Freak Out fosse un disco scioccante». Una decade dopo il suo giudizio si è fatto ancora più amaro, come ha detto a Sluggo!: «Oh, io odio Frank Zappa. Sa suonare bene la chitarra ma è una persona orribile… Se dici a Frank Zappa di mangiare la merda in pubblico, lui lo farebbe se servisse a vendere più dischi».

Anche Lou Reed ha detto la sua su Zappa, nel corso degli anni. Nel lavoro sulla band pubblicato da Nigel Trevena nel 1973 parla di Zappa come “la persona con meno talento che abbia mai incontrato nella mia vita”: «Lui è un ipocrita, presuntuoso, accademico, non sa suonare davvero niente. Non può suonare il rock&roll perché è un perdente… Non è contento con se stesso e penso che abbia ragione». I due hanno sepolto l’ascia di guerra, parecchio tempo dopo. Dopo la morte di Zappa per cancro alla prostata, nel 1993, Lou Reed ha presentato la sua introduzione nella Rock and Roll Hall of Fame.

Iscriviti