«Vengo dall’Aghanistan, dove sono nato e cresciuto, sono il componente di una band heavy metal chiamata District Unknown. Ora vivo in Inghilterra, perché costretto a lasciare il mio Paese a causa della musica che faccio», racconta Yusoof. La sua storia, e quella della sua band, è al centro di un film-documentario diretto da Travis Beard, RocKabul, in programma per domenica 15 aprile al Middle East Now Festival di Firenze:uno sguardo inedito, lontano dagli stereotipi con cui solitamente guardiamo il medio Oriente e un paese come l’Afghanistan, ritratto per l’occasione attraverso la scena underground della capitale.
La storia di Yusoof, tuttavia, racconta del potere che, ancora oggi, può avere la musica. È proprio a causa del suono della sua band, ritenuto ‘satanico’ dalle autorità religiose afghane, che il musicista è dovuto scappare dalla propria terra. «Non sono un rifugiato – precisa il frontman dei District Unknown – ma sono dovuto fuggire in stato di emergenza».
Da dove inizia il tuo esilio forzato?
Con la band facevamo parte della scena underground di Kabul, ma nel 2013 la gente ha iniziato ad accorgersi di noi, stavamo diventando ‘famosi’ per così dire, ma è da lì che le cose hanno iniziato a peggiorare, soprattutto per me. Molta gente ha iniziato ad additarci come ‘satanisti’ perché, in Paese così fortemente religioso e conservatore come l’Afghanistan, l’heavy metal è considerata la musica del diavolo.
Puoi spiegarci meglio?
In Afghanistan c’è molta musica, anche in tv. Ci sono concerti e spettacoli dove la gente suona musica tradizionale e musica pop, quella va bene, soprattutto se cantata in afghano: puoi cantare senza problemi, non è pericoloso. Se, al contrario, suoni musica radicalmente influenzata dalla cultura Occidentale, a quel punto diventa un problema. L’heavy metal, poi, per il suo suono pesante e distorto è da alcuni ritenuto ‘spaventoso’, talvolta succede anche in Occidente se ci pensi bene: immagina in un Paese come l’Afghanistan, dove alle persone sembra che tu stia urlando come un pazzo. Suonare musica occidentale in Afghanistan, in particolare heavy metal, non è decisamente una buona idea.
Questo veto vale solo per il metal o anche per altri generi? Penso al rap ad esempio.
In realtà in Afghanistan ci sono molti artisti rap, ma cantano tutti nella lingua locale per non avere alcun problema. Quando lo stile diventa “troppo occidentale”, o se si decide di cantare in inglese, a quel punto possono nascere dei casini, e anche grossi. Figurati se si inizia a parlare di droghe o sesso, temi spesso affrontati dal rap come siamo abituati a conoscerlo. In Afghanistan per far musica è fondamentale trovare un bilanciamento: puoi fare rap ma devi parlare di tradizione, del Paese, anche di cazzate locali, ma se il suono diventa troppo ‘Occidentale’, a quel punto non va bene. È molto difficile capire la linea che divide ciò che è consentito da ciò che non lo è, il rischio esiste continuamente.
Dicevi che l’heavy metal nel tuo Paese è considerato ‘satanico’. Quali sono i rischi a suonarlo?
Il rischio maggiore è la pena di morte. In Afghanistan ci sono leggi religiose, l’Islam è il centro di tutto ed è proibito discostarsene. È vietato abbracciare un’altra religione, è vietato anche soltanto mettere in dubbio l’Islam: in quel caso vengono concessi due o tre giorni per riconvertirsi all’Islam, se non lo fai ti conviene lasciare il paese oppure ad attenderti c’è la pena di morte. Fare musica considerata satanica in Afghanistan equivale a rinnegare l’Islam, la pena di morte è assicurata. Morirai, che sia per mano della legge o della gente.
In che senso?
Faccio un esempio, poco tempo fa a Kabul una ragazza era stata arrestata, perché giravano voci su di lei che avesse dato fuoco al Corano. Bene, una folla ha fatto irruzione dentro la stazione della Polizia, l’ha trascinata nel centro della capitale e l’ha lapidata e picchiata a morte. Questo per dire che se anche la legge può spingerti a lasciare il paese se suoni heavy metal, perché il rischio è la pena di morte, c’è la possibilità che siano le stesse persone, i tuoi stessi concittadini, a ucciderti.
Se tu decidessi di tornare in Afghanistan, saresti ancora in pericolo?
Beh sono sicuro che ci non sarebbe la Polizia ad attendermi all’aeroporto (ride). Adesso non sarebbe un problema tornare nel Paese, sono ormai passati diversi anni da quando avevo una parte dell’attenzione pubblica addosso. Non ci sarebbero problemi se decidessi di tornare, ma comunque dovrei mantenere un basso profilo per tutta la vita, stare sempre sull’attenti: non farmi notare e in pratica trascorrere la vita a nascondermi, il che equivale a non vivere. Dovrei essere costantemente in allerta che qualcuno possa riconoscermi, ricordarsi di me e della musica ‘satanica’ dei District Unknown.
Prima raccontavi del tradizionalismo che guida una larga fetta del Paese. Ma è così anche per i giovani?
I giovani non sono così, vogliono il cambiamento ma lo nascondono. I ragazzi di Kabul sono come i ragazzi in Occidente: bevono, fumano, hanno relazioni, ma tengono tutto quanto segreto. Hanno paura di ciò che potrebbe succedergli se mostrassero chi sono veramente e come la pensano, ed è per questo che decidono di sembrare tradizionalisti, anche se non lo sono.
A Firenze durante il Middle East Now suonerai le canzoni dei District Unknown. So che il resto della band vive in America attualmente, mentre tu in Inghilterra, state lavorando a distanza?
Sì, ed è difficilissimo perché proviamo via Skype, poi io lavoro sul materiale da un piccolo studio di registrazione che ho a casa. Il mio sogno è raggiungere in America il resto della band, ma ora entrare negli Stati Uniti è diventato un casino, non credo che le leggi di Trump consentirebbero a un cittadino afghano di entrare (ride). Io comunque non mi arrendo e ci proverò perché con la band stiamo continuando a suonare e presto usciranno nuove canzoni. Non smetteremo mai con la musica.
Credi che RocKabul potrà cambiare qualcosa raccontando la tua storia e quella dei District Unknown?
Suonando heavy noi non vogliamo dire alla gente che siamo in grado di cambiare tutti i problemi del Paese, nessun a musica è così potente. Ma raccontando la nostra storia vogliamo lanciare un messaggio, soprattutto ai giovani: se hai un sogno, ma hai paura di realizzarlo, non fermarti, puoi farcela. Vogliamo rivolgerci a chi ha il terrore di esprimere il proprio talento perché spaventato dalle conseguenze, perché il rischio è quello di essere arrestati. Noi vogliamo essere degli esempi: ci piace l’heavy metal e lo facciamo, quindi non abbiate paura di inseguire ciò che amate. Il film RocKabul racconta esattamente questo: giovani che fanno ciò che sognano, nonostante vivano in un Paese martoriato dalla guerra, che fanno musica nonostante ci sia il rischio di essere arrestati o perseguitati. Noi facciamo parte del movimento underground raccontato nel film, e ne siamo fieri e lo racconteremo ai nostri nipoti. Spero che il film RocKabul aiuterà in tutto questo, che diventi un messaggio di speranza e che aiuti le persone ad aprire gli occhi e a non aver più paura.