Per Douglas Coupland, Kurt Cobain era la antitesi del digitale. In un’intervista inclusa nello speciale di Robinson, l’inserto di Repubblica, dedicato a Cobain, lo scrittore e autore di uno dei romanzi simbolo degli anni ’90 Generazione X offre una lettura generazionale dell’esperienza dei Nirvana.
«Negli anni ’90», dice, «la Generazione X sapeva che le cose erano troppo belle per durare. Tutti aspettavano che la grazia dei decenni precedenti svanisse. Ecco, Kurt Cobain era la voce recondita e oscura che annunciava l’addio a quel “nirvana” collettivo, verso la fine degli anni ’90. Anche se quegli stessi anni, poco prima dell’arrivo del terzo millennio, vennero edulcorati da serie tv come Friends o band alla Spice Girls».
Per lo scrittore e saggista canadese, che era tra il pubblico dell’Unplugged dei Nirvana, da quando siamo entrati nell’era digitale non c’è più stato qualcuno come Cobain e questo perché il cantante dei Nirvana era «l’incarnazione di come sarebbe stata la vita delle nuove generazioni prima che appaltassimo la nostra cognizione a Internet e alle memorie “cloud”».
Più di ogni altra cosa Cobain è stato per Coupland il paladino dell’idea di non svendersi, qualcosa di difficilmente spiegabile nel 2024. «La riassumerei così: per la Generazione X “il successo era fallimento sotto mentite spoglie”. All’epoca di Kurt Cobain se facevi qualcosa che piaceva alle masse era un problema. Oggi, invece, l’unico metro di giudizio sono i clic, e i numeri, i numeri, i numeri… Inoltre, l’arte oggi si qualifica come un’esperienza purificata da disagi e sofferenze. Insomma, il mondo capovolto. O forse una sorta di inferno».