Voglio dirlo chiaramente, l’album rischia di morire.
Le vendite del formato più amato della storia della musica continuano a calare anche negli Stati Uniti. Secondo i dati pubblicati dalla RIAA (Recording Industry Association of America), il volume complessivo degli incassi nella prima metà del 2018 (tra download, CD e vinile) è crollato del 25,8% rispetto a quanto registrato nel 2017. Se questo calo percentuale dovesse continuare per tutto l’anno, e non ci sono elementi per immaginare il contrario, le vendite degli album saranno circa la metà rispetto al 2015. Per essere ancora più chiari, i consumatori americani spenderanno mezzo miliardo di dollari in meno rispetto a quanto fatto nel 2017.
È il CD, come prevedibile, a pagare il prezzo più alto: dopo il confortevole calo del 6,5% nel 2017, nella prima metà del 2018 i guadagni si sono dimezzati – del 41,5%, circa 246 milioni di dollari.
Non è difficile capire perché. Il 2018 passerà alla storia come l’anno dell’accelerazione del declino delle copie fisiche: artisti come Drake, Eminem, Cardi B, Travis Scott, Migos e Kanye West hanno tutti pubblicato i loro nuovi e attesissimi album in esclusiva per una settimana su piattaforme digitali. Tutti hanno diffuso le copie fisiche solo dopo l’esaurimento della prima fase di “vendita”. I grandi nomi dell’hip-hop, insomma, stanno voltando le spalle ai CD (e ai negozi fatti di calce e mattoni) a favore di Spotify e Apple Music, dove il genere spadroneggia da anni.
Niente di tutto questo, ovviamente, dovrebbe sorprenderci.
Nel 2014, qualcuno se lo ricorderà, il co-fondatore di Spotify Daniel Ek litigò in pubblico con Taylor Swift, uno strascico della decisione della popstar di togliere il suo catalogo dalla piattaforme. Swift accusava la piattaforma di aver “cannibalizzato” l’album, ed Ek rispondeva che “ai vecchi tempi, molti artisti vendevano milioni di copie ogni anno. Adesso non succede più, le abitudini dei consumatori sono cambiate e non torneranno più come prima”.
Aveva ragione. Come sappiamo tutti, l’industria ha scelto di camminare mano nella mano con Ek, trasformandosi in un settore comandato dallo streaming. Tuttavia, una domanda si fa sempre più insistente: per inseguire il denaro l’industria sta perdendo qualcosa di inestimabile?
Certo, lo streaming ha portato tanto denaro nelle tasche di tanta gente. Ma se gli album moriranno – e l’industria torna all’idea di consumo dell’era pre-Beatles – il pubblico avrà un rapporto più superficiale con gli artisti?
La risposta a questa domanda risiede nelle abitudini di consumo su Spotify, Apple Music e gli altri, ma una cosa è certa: non tutta la musica nasce nello stesso modo – e le statistiche lo confermano. Prendete Scorpion di Drake, l’album più venduto dell’anno negli Stati Uniti. Con il chiaro intento di accumulare più stream possibili (e battere diversi record), Scoprion ha 25 tracce. Tuttavia, secondo i dati che ho ottenuto dal sito di Spotify-monitoring Kworb, il 63% di questi stream deriva da solo tre canzoni: God’s Plan, In My Feelings e Nice for What. Aggiungendo Nonstop, Don’t Matter to Me e I’m Upset si arriva all’82%. Gli altri 19 si dividono il 18% rimanente, poco più dell’1% per ogni canzone.
È una storia simile a quella di beerbongs & bentleys di Post Malone, che ha accumulato il 62% degli stream con i tre singoli Rockstar, Psycho e Better Now.
Qualcuno potrebbe sostenere che in realtà non è cambiato nulla – il pubblico del passato acquistava gli album per ascoltare le canzoni che preferivano, ignorando il resto -, oppure che lo streaming è stato una manna dal cielo per gli album – chi prima scaricava illegalmente un LP ora può ascoltarlo gratis su Spotify -, ma se così fosse il formato dovrebbe godere di ottima salute.
È l’industria musicale, in realtà, ad aver propagandato lo smantellamento degli LP. Billboard 200, la classifica più nota del mondo, considera gli stream delle singole tracce di un disco come “l’equivalente dell’album”. La formula – peraltro molto discussa – è la seguente: 1,250 stream a pagamento da Spotify, Apple Music e simili contano come una copia fisica. Per quanto riguarda gli stream gratuiti su YouTube o Spotify free, la cifra sale a 3,750.
Questo meccanismo ha generato situazioni insolite: Scorpion, per esempio, ha venduto 160mila copie “reali” nella prima settimana d’uscita, ma secondo Billboard/Nielsen bisogna aggiungere a questa cifra altre 551mila unità di “streaming equivalente”. Nella seconda settimana l’assurdità diventa ancora più evidente: l’album ha venduto (letteralmente venduto) 29mila copie su iTunes e simili, registrando però una cifra dieci volte superiore (228mila unità) grazie allo stream delle singole tracce.
Questa, per l’industria discografica, è una specie di crisi esistenziale: come può una cosa (lo streaming di un brano) essere considerata “equivalente” a un’altra ben diversa (l’acquisto di un album) quando, secondo i dati, la prima domina completamente la seconda? Nel 2018 la formulazione “streaming-equivalent album” sembra sempre più sciocca. È come chiamare le email “equivalente digitale del fax”, le macchine “equivalente dei cavalli” e Netflix l’equivalente del multisala.
La morte delle canzoni dell’album, se non dell’album stesso, ha anche un impatto commerciale da non sottovalutare. Lucas Keller è il fondatore di Milk & Honey, uno studio di management di Los Angeles che si occupa di quegli autori e produttori che lavorano dietro le quinte del pop. Questa settimana ha spiegato a Music Business Worldwide che l’epoca in cui i suoi clienti guadagnavano da album senza hit è “finita da un pezzo”.
L’industria sta iniziando a rendersi conto della situazione, e c’è chi è pronto ad agire per bloccare la devastazione. Domenica 13 ottobre l’industria britannica si è unita per lanciare una campagna nazionale: il National Album Day. È un evento importante. Le major, le etichette indipendenti, le società delle classifiche e un vasto network di retailer si sono uniti per far sentire la loro voce, e la manifestazione era in primo piano nei notiziari radiofonici della BBC – un altro partner fondamentale.
L’idea era di replicare la magia del Record Store Day, l’iniziativa che ogni anno fa aumentare le vendite delle copie fisiche su tutte e due le sponde dell’Atlantico. Ma indovinate cosa è successo? Nonostante gli sforzi di tutto il settore, le vendite sono calate nella settimana dell’evento.
Come ha previsto Daniel Ek quattro anni fa, il pubblico ormai ascolta la musica un brano alla volta, magari inserito una playlist a tema. L’industria discografica, nel frattempo, non si sente più al sicuro.