«Novantacinque anni di avventure, esperienze uniche, curiosità, sfida dei limiti e allo status quo, tennis, musica, arte, scrittura… e un bel po’ di spirito da contrarian danese».
Con queste parole Lars Ulrich, batterista e fondatore dei Metallica, ha dato notizia della morte del padre Torben. Era un personaggione. Nato in Danimarca nel 1928, è noto soprattutto come tennista professionista. Attivo sui campi dalla fine degli anni ’40, ha disputato un centinaio di partite di Coppa Davis. Tra i suoi risultati migliori, le semifinali di doppio a Wimbledon nel 1959 e di doppio misto agli US Open di dieci anni dopo.
Era un grande eccentrico, capace di perdere un match agli US Open per una farfalla che gli era volata sul viso e commentare con la massima taoista «non so se sono una farfalla che sogna d’essere uomo o un uomo che sogna d’essere farfalla» (a questo link un profilo della rivista Tennis del 1971).
Era anche un amante del balletto, della poesia (che praticava), dell’arte in generale. Era un musicista jazz e critico musicale per alcuni giornali danesi. Due anni fa ha pubblicato il suo ultimo album Oakland Moments: Cello, Voice, Reuniting (Rejoicing) con le sue poesie e le performance di Lori Goldston, la violoncellista dei Nirvana unplugged.
Ha diretto due film, The Ball and the Wall con Gil de Kermadec nel 1988 e Body & Being: Before the Wall con Rick New e Molly Martin nel 2002. È apparso nelle pellicole di Jørgen Leth Motion Picture (1969) e Moments of Play (1986).
Memorabile l’apparizione del documentario dei Metallica Some Kind of Monster sulle travagliate session di St. Anger e non solo. Quando gli viene chiesto un parere su una nuova canzone, risponde serafico: «Direi di cancellarla».
Torben Ulrich è stato fondamentale anche nell’indirizzare il figlio Lars prima verso il tennis, poi verso la musica. «Papà era sempre il ballo con la musica», ha detto il batterista negli anni ’90. «Frequentava Sonny Rollins, Don Cherry e Dexter Gordon. Quest’ultimo è il mio padrino. Da piccolo giocavo con Neneh Cherry il cui patrigno, Don Cherry, abitava a sei case di distanza da casa nostra a Copenaghen. Frequentavamo gente così. Anche se si guadagnava da vivere col tennis, scriveva di jazz sui giornali di Copenhagen. Sullo stereo di casa c’erano sempre Miles Davis e Ornette Coleman, e più tardi i Doors e Jimi Hendrix».
Il carosello di foto che il figlio gli ha dedicato Instagram è notevole: