Tra «i dieci e i quindici» concerti all’anno (anche se poi la moglie lo frena), un affetto enorme per Il capello, che scrisse con il paroliere Carlo Rossi nel 1959 («mi ha fatto individuare la strada che dovevo prendere: spiritosa, ironica, divertente») e di quella volta che l’intuizione fu trasportare un hully gully in Africa, creando I Watussi, brano della n-word e politicamente, oggi, molto scorretto.
«Non demoliamo mica il Colosseo perché ci hanno ammazzato i cristiani… Quando l’abbiamo scritta era lecito chiamarli come li abbiamo chiamati, e quindi non ho nessuna intenzione di cantarla diversamente. I Watussi rimangono come sono nati: cambio il testo solo se nello stesso giorno demoliscono pure il Colosseo».
Così ha dichiarato Edoardo Vianello, intervistato dal Corriere nell’estate in cui Anna Pepe canta “abbronzatissima” nel suo primo album (il brano è 30°C) e una certo revival italiano degli anni passati sembra sull’onda, trainato dalla comparsa sanremese di Pino D’Angiò (che idea!). Vianello di anni ne ha 86, e al quotidiano ha dichiarato, a proposito di hit contemporanee e tormentoni estivi, che «la musica di oggi non mi piace, non distinguo i vari interpreti perché mi sembra cantino tutti allo stesso modo. Mi piace molto però Annalisa, ha un genere di canzoni che mi sarebbe piaciuto scrivere, frizzanti e divertenti. Invece non sopporto Giuliano Sangiorgi che ha rovinato una canzone come Meraviglioso con un’interpretazione totalmente sguaiata. Ho avuto l’occasione di dirglielo, chissà perché mi ha guardato male… . Uno deve cantare con gusto per prima cosa».
E il Festivàl? «Parla di quella cosa che si svolge in provincia di Imperia? Il mio ultimo Sanremo è del 1967, al casinò, non conosco nemmeno il teatro Ariston. Sono un timido, sul palco prima di prendere contatto bene con il pubblico ho bisogno di un quarto d’ora, a Sanremo quel tempo non te lo danno. Il mio Sanremo sono stati i jukebox».
Non inappropriato per chi, per stessa dichiarazione di Vianello, ha “lanciato” la propria carriera pagando gli amici per mettere le sue canzoni nei luoghi di movimento: «Accompagnavo i miei amici nelle spiagge e nei bar più frequentati e facevo inserire le 50 lire che davano diritto a tre canzoni, e ovviamente facevo selezionare i miei pezzi. Io non mi facevo vedere per paura di essere riconosciuto e poi scappavo come un ladro. Evidentemente è una strategia che ha dato i suoi frutti, alla fine le canzoni sono penetrate definitivamente nei cervelli delle persone».
Canzoni che, secondo Vianello, per arrivare “a tormentare” devono possedere determinate caratteristiche: l’idea presente nel testo, facile ma intrigante, la semplicità della musica, e una certa orecchiabilità sofisticata. Così, secondo il cantante, si sopravvive anche ai rivolgimenti sociali e politici: «La situazione politica e sociale è cambiata nel ‘68, mi sono ritrovato estraneo perché le mie canzoni non le volevano ascoltare, mi fischiavano, per un bel pezzo ho smesso di cantare perché non mi dava più gusto. Poi negli anni ’80 c’è stato un movimento di recupero dei ’60 e mi sono subito accodato: ho fatto il testimonial delle mie canzoni».
Vianello ha poi parlato del suo rapporto con Raimondo, cugino del padre: «C’era differenza di una generazione, non c’era una frequentazione continua, lui era sempre molto freddo e distaccato, all’inizio della mia carriera lo tampinavo di telefonate e lui alla fine mi diede un consiglio: lascia perdere».
Dovesse scegliere tra paradiso, inferno e purgatorio? «In Paradiso posso andarci giusto per qualche weekend, ma se voglio ritrovare i miei amici preferisco andare all’Inferno: le giornate sono certamente più interessanti là sotto».