Il Tribunale di Milano ha condannato Fabri Fibra a pagare una provvisionale di 20 mila euro come risarcimento a Valerio Scanu per averlo diffamato in una canzone. Il brano incriminato è A Me Di Te, contenuto in Guerra E Pace del 2013. La sentenza era già stata emessa mesi fa, ma, non essendoci stato alcun ricorso da parte di Fibra e dei suoi legali, ora è definitiva: 20 mila sacchi subito e poi si vedrà quanto vorrà aggiungere il giudice alla sanzione.
“Vengo in bocca, come a Valerio/che in verità è una donna/a me sta bene, il mondo è vario./Vladimiro era invertito, un travestito al contrario/Davvero? Certo, l’ho visto a Porto Cervo/esplodevo come a Chernobyl, dopo il suo concerto/eravamo nel suo camerino a bere vino/io l’ho spinto in bagno, lui m’ha detto/’in tutti i mari, in tutti i laghi, non capisci, mi bagno’./Con una corda l’ho legato sul divano/lui mi ha detto ‘Questa corda mi ricorda/il mio compagno di scuola media/si chiamava Massimo, chiavava al massimo/una media alta, mi incul*va come i Mass Media’./Gli ho risposto ‘Complimenti’/gli ho abbassato i pantaloni/e sotto aveva un tanga e quattro assorbenti/giù le mutande, liquido fuori da questo glande/tira su tutto come le canne/mi sono fatto Valeria Scanner”.
Che Fibra parli di Scanu nella strofa è abbastanza chiaro, nonostante il nome del cantante sardo sia stato leggermente storpiato in “Valeria Scanner”. Immediatamente dopo l’uscita di Guerra E Pace nel febbraio 2013, Scanu è partito per vie legali affidandosi agli avvocati Paola Castiglione e Ugo Cerruti, che hanno commentato così la sentenza: «La musica è libertà, ma insultare squallidamente una persona non è musica e non è arte. Ognuno è libero di manifestare liberamente il proprio pensiero, non di offendere e diffamare una persona.»
Premesso che non è compito di due avvocati stabilire cosa sia arte e cosa no, il problema di questa sentenza è che ha creato un precedente. È infatti la prima emessa in Italia a condannare un artista rap per il testo di un proprio brano. Ora, Fabri Fibra ha alle spalle più di 20 anni di testi espliciti e offensivi, e di certo nel rap non si è inventato nulla. Se in America si querelasse un rapper ogni volta che insulta qualcuno in un testo, credo in poco tempo si smetterebbe di fare rap, che probabilmente ritornerebbe allo stato embrionale di forma underground nei quartieri disagiati. Luogo dove notoriamente gli avvocati non mettono piede. Solo ora che il rap in Italia ha surclassato il pop stanno arrivando i primi problemi ed è proprio ora che bisogna mettere in chiaro due cose. Giusto per evitare che a forza di querele si uccida il rap proprio come è successo con la campionatura dei vecchi dischi.
Detto ciò, è chiaro che oggi più che mai l’omofobia è un problema concreto. La recente strage di Orlando non fa che confermarlo, ma credo che andarsela a prendere con i rapper sia più una caccia alle streghe che un modo efficace per combattere la discriminazione. Nella stessa identica situazione con lo stesso rapper, Marco Mengoni nel 2010 aveva scritto così sul suo Facebook: “Non ho alcuna intenzione di rispondere per vie legali. Nessuna querela, niente di niente da parte mia. Viviamo in un Paese libero e ognuno è libero di dire quello che vuole. Così come io sono e mi sento un uomo libero, così deve essere anche per lui. Detto francamente, di questa cosa non mi frega assolutamente nulla, non mi cambia per niente (…) È un suo problema: poteva scrivere una canzone contro la guerra o qualsiasi altra cosa, ha deciso di fare un testo così, fatti suoi.” Come a dire, fra artisti ci si capisce subito. A sguinzagliare gli avvocati sono altri.