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Fantastic Negrito ha vissuto dieci volte

E se fosse vero, Xavier in tutte queste vite ha imparato tante cose, come mischiare le sue tre anime funk, blues e rock’n’roll o più semplicemente fomentare le folle, com'è successo ieri in Santeria a Milano
Giacomo Bai / dariopichini.it

Giacomo Bai / dariopichini.it

Se è vero che Fantastic Negrito ha vissuto dieci vite, come hanno scritto i critici, ha imparato qualcosa da ognuna. Oggi questo ragazzo di 50 anni dal nome impronunciabile, Xavier Amin Dhprepaulezz, è un sopravvissuto che ha parecchie cose da dire e non sbaglia un colpo nel dipingere il suo mondo con il rosso, il blu e il nero delle sue tre anime funk, blues e rock’n’roll.

Dalla gang di spacciatori in cui ha passato l’adolescenza a Oakland ha imparato i trucchi della strada applicati al palco, dall’incontro ravvicinato con la morte per un incidente stradale che lo ha lasciato tre settimane in coma ha imparato il potere trascendente della musica e dalle occasioni perdute di farsi strada nell’implacabile mondo dello showbusiness e arrivare dove merita (ovvero un contratto discografico ottenuto grazie al manager di Prince bruciato con un album uscito nel 1996 che è passato inosservato) ha imparato che deve dare sempre tutto e far divertire tutti, perché quello è l’unico modo per far durare più a lungo possibile la seconda occasione che un talento cristallino gli ha regalato.

C’è poi la parentesi della rinascita, quando organizzava feste clandestine in un loft di Los Angeles per un pubblico di VIP, e quello gli ha dato il titolo e il groove del pezzo con cui ha aperto i suoi due concerti di Milano: Bad Guy Necessity.

«Tutti hanno bisogno di un cattivo»: Fantastic Negrito sale sul palco e si aggrappa a microfono e amplificatore con la personalità di chi non ha mai fatto altro nella vita, scivola via inarrestabile perché sa fare tutto. Ha la voce, il sound e la presenza scenica e si appoggia ad una band impeccabile, ridotta al minimo ma che suona come un’orchestra black: chitarra, batteria e tastierista monumentale che fa il basso con la mano sinistra alla Ray Manzarek, chiusure perfette, sintonia totale.

I primi quattro pezzi li fa tutti insieme in un medley di 20 minuti, quando deve aumentare la ripetizione e il ritmo scivola nel funk, quando rallenta si immerge nel blues, ed è sempre in equilibrio tra esecuzione tecnica e diluvio di improvvisazione, in quel territorio musicale imprevedibile in grado di accendere l’entusiasmo di qualsiasi pubblico. L’ultima volta che ha suonato a Milano alla Salumeria della Musica c’erano poche decine di persone, adesso in Santeria Social Club è sold out. Era inevitabile che prima o poi qualcuno si accorgesse di uno così.

Giacomo Bai / dariopichini.it

«Due anni fa non avevo neanche un contratto discografico, ma Chris Cornell mi ha portato in giro per il mondo con lui» racconta Fantastic Negrito ricordando quando è arrivato al Teatro Arcimboldi del 4 aprile 2016, come supporto di Cornell nella sua ultima data in Italia, «Stando vicino ad una grande rockstar ho capito tutto e così mi sono ritrovato con un album che ha vinto un Grammy, anche se io ero ancora senza etichetta».

L’album è The Last Days Of Oakland, premiato come miglior disco di blues contemporaneo nel 2017. «Quando mi hanno dato il Grammy non sapevo che farmene» continua Fantastic Negrito «Così l’ho dato via, e mi sono ritrovato di nuovo in pace».

Dopo la consacrazione della critica ha usato quel sound viscerale che ha distillato da una serie infinita di influenze, da due anni passati in tour e da due o tre decenni di esperienze di vita che sembrano uscite dalla sceneggiatura di un film blaxploitation, per parlare della situazione politica americana, delle questioni irrisolte della comunità afroamericana, di giustizia sociale e di immigrazione, si è chiuso in uno studio di Oakland producendosi tutto da solo e ha riempito di idee il suo secondo album Please Don’t Be Dead. «La società di oggi ha perso completamente la bussola, e io so cosa succede quando insegui le cose sbagliate. È la storia della mia vita» ha detto presentandolo alla stampa come «Un disco senza generi e senza confini, black music per tutti»
Dal vivo c’è sempre un po’ di manierismo nella sua forzatura dei meccanismi dell’intrattenimento all’americana e nella ricerca continua dell’interazione con il pubblico, ma in fondo la sua è una “bar band”.

Una di quelle che fanno ballare in posti in cui l’unico posto per ballare è sotto al palco, con la musica suonata dal vivo con gli strumenti, e non in un club. Fantastic Negrito è furbo, prende una cosa che piace a tutti e la ripete a volume alto (perché sa che piace a tutti) e non si preoccupa che tra i pezzi in scaletta uno sia uguale a House of The Rising Sun degli Animals, uno a Gimme Some Lovin’ di Spencer Davis Group e uno alle sferzate garage dei primi White Stripes. Jack White, per esempio, è uno che ha preso il passato e l’ha portato nel futuro.

Lui no, è rimasto lì, orgogliosamente ancorato a quelle radici musicali che gli hanno dato una ragione di vita. Fantastic Negrito è uno splendido autodidatta analogico, a metà strada tra l’inconsapevolezza di Cody Chesnutt e la confidenza sfrontata del suo idolo Prince e fa musica organica e genuina. Il suo mondo a tinte rosse, blu e nere è tutto lì, tra la una cover del classico folk In the Pines (da cui è nata Where Did You Sleep Last Night di Leadbelly) e il groove funky del singolo The Duffler con cui chiude il concerto prendendosi tutto l’abbraccio del pubblico. E prima di andare a firmare le copie dei suoi dischi, ha anche il tempo di lanciare un bel messaggio: “Please don’t let computers change your mind.”

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