Qualche ora fa è uscito Brute. È il secondo album di Fatima Al Qadiri e segna una specie di rottura dal precedente, nonostante si tratti pur sempre di forme elettroniche eteree e a loro modo meditative.
Il nome esotico dell’artista elettronica, classe ’81 nata in Senegal ma kuwaitiana da sempre, potrà non essere familiare a molti. Ma non importa perché, che siate interessati o meno ai droni pericolosi o le melodie sospese in Brute (il consiglio è di ascoltarlo), al centro dell’intervista qui sotto vengono affrontati temi che trascendono per importanza la musica, che nel caso di Fatima per la prima volta nella sua breve storia discografica si fa mezzo di allarme. Siamo davvero liberi di riunirci e manifestare il nostro pensiero al di fuori dei confini della nuvola virtuale tracciata da Internet?
Sabato scorso Fatima era a Milano per mettere dischi, ma dovendosi spostare molto rapidamente fra una serata e l’altra, l’unico modo per farmi una chiacchierata con lei era contattarla attraverso Skype. Cosa che ha reso la discussione altrettanto alienante, specie per ciò di cui abbiamo parlato.
L’altra sera c’ero al tuo set a Milano. Mi aspettavo più bassi e batterie del tuo disco, ma non così tanto. Sembrava una dancehall, mi sono davvero divertito.
Bene! Sì, un conto è l’album, ma quando mi chiamano a una festa mi piace che la gente si agiti. Quel posto era davvero strano, dalla consolle ricevevo solo basse frequenze che mi rimbombavano nel petto. Sentivo la metà delle cose che ho messo ma non posso dire di non essermi divertita anche io.
Veniamo al disco. Nel suo ultimo Asiatisch ci trovavi voci di graziose ragazze cinesi ma in Brute qualcosa è cambiato.
Non è cambiato nulla, ma ho voluto affrontare qualcosa che mi sta turbando da molto tempo. E che negli ultimi tre/quattro anni si è fatto sempre più intenso. Ho pensato che fosse il momento giusto per fare un disco politicizzato, forse perché finalmente molte persone stanno cominciando a mettere in dubbio elementi fondamentali come l’autorità e la libertà di riunirsi.
È per questo che la prima traccia si apre con un avvertimento?
Sì, un poliziotto che urla al megafono. Intima ai manifestanti nelle immediate vicinanze di lasciare l’area, pena l’arresto. Le parole esatte dell’ufficiale sono: “Questo corteo non è più considerato pacifico. Andate a casa o vi arrestiamo”
Il poliziotto ha la faccia di un teletubby come nella copertina?
Ho scelto il teletubbie perché, in un mondo dove non è concesso radunarsi, i civili sono come bambini. Devono obbedire agli ordini degli adulti ed è proprio il paradosso che Josh Kline ha tradotto in scultura. Il teletubby è una delle sue opere più famose, io l’ho semplicemente modificato due cose e messo il tutto in copertina. Trovo che sia molto forte il contrasto fra un poliziotto in tuta da sommossa e un personaggio per bambini.
Ho sempre trovato inquetanti i teletubbies. Non tanto per l’aspetto ma piuttosto per l’aridità mentale che si portano dietro. Crescono i bambini come degli idioti.
Magari inquietanti no, però credo sia più l’aria di presunta innocenza che hanno in comune con la polizia. In teoria le forze dell’ordine dovrebbero proteggere e servire la comunità, ma di fatto possono varcare la linea dell’abuso quando vogliono. Sono autorizzati a uccidere o anche solo a stroncare sul nascere manifestazioni che sono garantite dalle costituzioni principali democrazie del mondo. Agli occhi della polizia e delle autorità non esiste protesta pacifica, se ti sei riunito per manifestate, per loro sei un problema.
Una volta Jeff Mills mi disse che se non fosse stato per le fotocamere dei cellulari, il mondo intero vedrebbe ancora il sistema giudiziario americano come uno dei migliori al mondo. Sei d’accordo?
Terribilmente d’accordo. Avevo 17 anni quando sono arrivata in America, all’epoca per me era come il Santo Graal della democrazia. Ma mi ci sono voluti pochi mesi e una grande protesta contro le banche nel ’99 per rimuovere completamente ogni illusione di democrazia. Fu l’inizio della fine del idillio fra me e i cosiddetti diritti del cittadino.
Stiamo vivendo in un’illusione di libertà?
Penso che siamo tutti qui a discutere sempre della libertà di parola ma nessuno accenna mai alla libertà di riunirsi. La diamo talmente per scontata che infatti non ce l’abbiamo più. Guarda in Francia, per esempio. Nel mio piccolo, voglio richiamare all’attenzione il problema. Leggo centinaia di articoli sulla libertà di parola, ma davvero pochissimi sul diritto inalienabile di aggregarmi con altri individui e manifestare. La Rivoluzione Francese non è di certo scaturita dalla libertà di parola, ma da individui che sono scesi in piazza.
Sì, di sicuro Luigi XVI non l’hanno ghigliottinato con i tweet.
E nemmeno articoli! L’hanno fatto e basta. Senza la libertà di riunirsi non vedo alcuna differenza fra una democrazia e una dittatura autoritaria. Qual è la differenza? È davvero l’ultima chiamata: se i governi sono tanto corrotti bisogna scendere in strada.
Non parliamo di governi corrotti, te ne prego.
[ride] Sì, in Italia ve la passate maluccio!
Cambiamo argomento. Quindi come hai tradotto questa preoccupazione in suoni?
La musica per me è qualcosa di esclusivamente istintivo. Non penso a come dovrebbe suonare un determinato concetto, anche se poi nel subconscio lo faccio. Credo molto nell’istinto
e ciò molto spesso mi spinge ad agire apparentemente alla cieca. Se ci pensi troppo rischi di arrestare il processo creativo, oltre che annoiare sia te che chi ti ascolta.