Dieci anni fa, quando il mondo non conosceva ancora il nome di Frank Ocean, l’R’n’B americano era tutta un’altra cosa rispetto ad oggi. Un universo patinato e luccicante, fatto di vocalità prorompenti, abiti coordinati, automobili di lusso, case favolose, amici sempre pronti a lanciarsi in complicate e improbabili coreografie. Insomma, un piccolo esercito di Barbie e Ken versione black power, costantemente impegnati a mostrare il loro profilo migliore nel videoclip della vita. Almeno fino all’arrivo di quel ragazzino di New Orleans, la cui magnetica fragilità è riuscita a spazzare via in un colpo solo tonnellate di plastica. Un ragazzino che oggi compie trent’anni, e nonostante sia ormai una superstar mondiale è ancora uno di noi: uno sgobbone dall’aria vagamente uncool che è riuscito a trasformare la sua normalità e i pregi/difetti della sua generazione in un punto di forza.
Frank Ocean, in effetti, ha molto più in comune con un qualsiasi trentenne in crisi di identità che con le star della musica nera. Come quasi tutti i suoi coetanei, ha dovuto ingegnarsi e reinventarsi parecchie volte per riuscire ad arrivare dove voleva. Cresciuto vicino a New Orleans in una famiglia modesta, capisce subito che la musica è il suo futuro: fin da piccolo comincia a fare da dog sitter e lavamacchine ai vicini per risparmiare qualche soldo e costruirsi un home studio in cantina. Ma quando finalmente ce la fa, nel 2005 viene spazzato via dall’uragano Katrina. Il diciottenne Frank non si perde d’animo e si trasferisce a Los Angeles, dove riesce ad ottenere un impiego come songwriter per cantanti pop; nel frattempo lavora per una compagnia di assicurazioni, sezione reclami, “Un lavoro che odiavo”, ammetterà più tardi.
Tutto sembra cambiare quando entra nel collettivo Odd Future e ottiene un contratto discografico con Def Jam, ma anche in questo caso non è tutto oro quello che luccica: il suo disco viene giudicato fin troppo sommesso e delicato per poter ottenere dei risultati in classifica, e lui troppo anonimo per essere spendibile sul mercato, così l’etichetta ne ritarda continuamente l’uscita, dando priorità ad altro. Esasperato, Frank decide di trasformarlo in un mixtape e di diffonderlo gratuitamente sui social: Nostalgia, Ultra diventa immediatamente un fenomeno virale, sia tra gli ascoltatori che tra gli addetti ai lavori. Ivi compresi Kanye West e Jay-Z, che lo prelevano da Los Angeles, lo caricano su un jet privato e lo portano a New York per collaborare al loro progetto Watch the Throne.
I Grammy non mi interessano, non rappresentano la gente che vuole andare dove vado io
Da lì la strada sembra apparentemente spianata, ma c’è un altro piccolo problemino: il nostro eroe è gay, e non ci sono precedenti di artisti afroamericani e omosessuali legati alla cultura urban. O meglio, nessuno prima di lui si è mai azzardato a fare coming out. Gli uffici stampa sono imbarazzati e non sanno come comunicare la cosa, ma Frank la risolve a modo suo, inserendo nel booklet del suo primo album ufficiale Channel Orange (e sul suo Tumblr) una lunga lettera in cui racconta del suo primo amore, parlandone al maschile. Con la massima naturalezza e spontaneità, senza dare l’impressione di rivelare il terzo segreto di Fatima, ma presentandosi semplicemente per quello che è: un ragazzo che ama altri ragazzi.
Tutti, da Snoop Dogg a Tyler the Creator passando per il fondatore di Def Jam Russell Simmons, applaudiranno il suo gesto come rivoluzionario. Nessuna delle tragedie che per anni erano state pronosticate a chi si fosse dichiarato si è avverata; anzi, paradossalmente la cosa più pesante che gli è capitata a causa della sua omosessualità è stata una querela da parte di suo padre, che l’ha trascinato in tribunale per alcune sue dichiarazioni che lo dipingevano come omofobo. Come cambiano le cose, eh? Se un tempo essere gay-friendly era malvisto nella comunità nera, ora è essere considerato omofobo che è insultante. Alla buon’ora.
Oggi Frank Ocean ha più fan che mai, ma si può dire che vive come se non ci fossero. Ha mollato Def Jam (“Il mio rapporto con loro è stata una partita a scacchi durata sette anni”, dichiarerà), una casa discografica troppo vecchio stampo per capirlo del tutto, ed è ripartito da dove tutti i suoi coetanei musicisti cominciano: l’autoproduzione. Dopo aver pubblicato Blonde, il suo secondo album in studio, anziché promuoverlo è sparito e se n’è andato in vacanza, girando Cina, Giappone e Francia per mesi. Ha deciso di non candidare il suo progetto per i Grammy Awards (“Rappresentano la tradizione, non la gente che viene da dove vengo io e che vuole andare dove vado io”).
Rilascia da pochissime a zero interviste. Parla di sé, o meglio della sua musica, solo tramite il suo programma su Beats1, Blonded Radio, ora in pausa. E spesso capita che non sia dove dovrebbe essere – tipo sul palco del Primavera, di cui lo scorso maggio era headliner, almeno finché non ha cancellato il concerto senza troppe spiegazioni. D’altra parte, chi mai vorrebbe essere rinchiuso in una gabbia dorata a trent’anni? Noi no di certo, e a quanto pare neanche lui. Auguri Frank: ti vogliamo bene così come sei.