«L’industria musicale promuove un modo di pensare e agire inquinato dal culto dei numeri». Risultato: «Bugie e false aspettative in cui purtroppo a rimetterci sono un sacco di ragazze e ragazzi» con depressione ed esaurimenti. «Abbiamo bisogno dei dischi di un altro Tenco, non del suo tragico finale». Eppure nessuno parla «per paura di ritorsioni, per non passare da frustrati perché non hanno ancora un pezzo della torta o peggio ancora, venire esclusi».
Lo scrive Ghemon in un lungo post su Instagram in cui affronta lo stato dell’industria musicale italiana. Lo fa ora dopo avere rimandato perché «mi va bene passare per qualsiasi cosa tranne che per quello che non ha parlato quando era il momento».
Riportiamo qui integralmente il suo scritto (gli asterischi sono nell’originale).
L’industria musicale attuale promuove un modo di pensare ed agire inquinato dal culto dei numeri e dei sold out che sta determinando più danni di quelli che il pubblico può vedere. Risultati prodotti in batteria e riempiti di estrogeni che danno l’illusione di grandi abbuffate ma che nascondono un mondo di bugie e false aspettative in cui purtroppo a rimetterci sono un sacco di ragazze e ragazzi. Certo, in tempi di gu3rr3, g3n0cldi, crisi climatiche, becere limitazioni alla Libertà di espressione fatte in diretta tv, questo appare un argomento marginale. A paragone lo è ma una cosa – purtroppo – non esclude l’esistenza dell’altra. E come per le altre più gravi cose, anche di questa nessun* parla per paura di ritorsioni, per non passare come quell* frustrat* perché non hanno un pezzo della torta o peggio ancora, venire esclus*. Di mezzo comunque ci sono le vite delle persone. Nella musica poi ci conosciamo tutt* ed è un attimo che se sollevi un problema o chiami fuori quell* che lo causa, te l* ritrovi due mesi dopo a gestire il tuo contratto.
Sistematiche nel mondo da cui provengo sono pratiche e frasi volte a smontare pezzo pezzo (se non distruggere) l’autostima dell’artista, per poterl* ridurre a materia senza certezze e perciò più plasmabile. “Facciamo come dite voi, probabilmente lo saprete meglio di me”. Spesso si tratta di ragazz* giovanissim* che non sono strutturat* per tenere botta a certi colpi, ma ho sentito anche tante persone più grandi di me raccontare esperienze di questo tipo. Credo che ci siano tante altre tipologie di lavoro in cui questo accade, ma siccome chi fa musica si diverte, parlarne risulta marginale e da sfigati.
Secondo la società della performance l’unico modo per esistere è stare al gioco indossando l’abito che è stato scelto per tutt* perché quello funziona già. Sacrifichi la tua identità perché l’uniformità rassicura il cliente e il conto economico. Fidati di noi, che così si fa. Quell* che gestiscono le tue idee creative spesso sono dipendenti di qualcun altr* e in fase di bilanci rispondono a chi comanda. Perciò mettitelo il grembiule che ha funzionato per qualcun altr* se non vuoi essere esclus*. Lavati anche tu con il detersivo per tutti i capi a 90°, anche se tu sei un maglione di lana e vai lavato a mano. Il detersivo ha una gradevole nota di muschio bianco e ha anche degli additivi di ultima generazione! Poi apri la lavatrice e tu non ci sei più, c’è la versione mini del tuo cazzo di maglione.
Molt* artist* pensano di poter essere l’eccezione in quel mondo ma l’eccezione non esiste. Mi spiego meglio con un parallelo (quanto mi piacciono i paralleli): Ti apri una trattoria, cucini talmente bene che si fa la fila fuori tutte le sere e a un certo punto viene un pezzo grosso e ti dice “possiamo aprirla in tutta Italia, te li mettiamo noi i soldi, puoi fare le ricette di tua nonna vedrai che successo avranno. Guarda che noi siamo quell* che hanno aperto i MeDonald’s!”. Ma quando diventi una catena, giochi con le regole del McDonald’s. E con le regole di quell* che ci hanno messo i soldi nel McDonald’s. E quell* non solo li rivogliono indietro, ma vogliono guadagnarne il doppio. Chiamal* scem*.
E perciò con gli abiti tutti uguali che non si infeltriscono (le canzoni, le produzioni, i tour, i social) quello che scompare alla fine è la tua identità. Se non si fa in un certo modo non si sta nel supermercato. Se non sei nel supermercato, il pubblico cambia anche la percezione che ha di te e tu stai davanti al tuo schermo nel costante confronto non con il/la collega più brav*, ma con dei numeri esagerati meglio. Ti do una notizia: ci sarà sempre qualcun* con numeri più grandi dei tuoi. Non puoi lottare contro numeri costruiti da un sistema. Non puoi pensare da solo di incassare più del McDonald’s. Per fare più del McDonald’s devi diventare un altro McDonald’s. Nella catena di montaggio, per un* che arriva prim*, ce n’è sempre un’altr* che arriva ultim*, anche se aveva usato la stessa formula. Ma come? Non doveva funzionare? Allora sono sbagliat* io.
Molt* ragazzi e ragazze, giovani o meno, stanno emotivamente a pezzi cercando di starci dentro con questi numeri, sento tante storie, tante depressioni, tanti esaurimenti. Nessun* parla e e nessun* gli parla. Non si tratta di flirtare con il successo e cadere, ma di altro. Finiscono per farti credere se non fai quei numeri, non è che HAI fAllit0 ma SEI fAllitO. Per loro è lavoro e a fine giornata finisce. Per te è la tua vita e viene a dormire con te. Ma voi che sapete che è quello che dico è vero, cosa state aspettando? Di fare i commenti dispiaciuti quando un ragazzo o una ragazza più fragili non reggeranno la pressione di questo sistema e faranno una cosa dalla quale non si torna indietro? Abbiamo bisogno dei dischi di un altro Tenco, non del suo tragico finale. Lo dico perché magari potevo essere io, se non avessi tenuto botta.
Ti fanno pensare che è finito tutto lì e tu non sai che puoi perseguire il tuo successo invece in mille altri modi. Non è che andare a Sanremo, il disco zeppo di featuring a tavolino e la playlist editoriale siano gli unici sintomi del successo. Sono solo i più conosciuti. Le vie sono mille altre, ma non sono spianate, perciò devi farti un culo così e la rete sotto non c’è. Piuttosto che piangere perché il grembiulino non ti sta a un certo punto impari a cucirti un vestito da sol*. Quello è un atto creativo e poco importa se sopra non c’è l’etichetta di un marchio famoso. Se è una cosa è bella, è bella anche se non è di Gucci.
Questo ho fatto anche recentemente e questo ho imparato dai miei vent’anni di carriera. Carriera che è conseguenza, colpa e risultato dei miei no (sono noto per dire sempre no, un grande cacacazzi). Ho difeso la mia creatività sempre, prendendone i meriti e pagandone anche molte conseguenze. Da diverso tempo sono totalmente indipendente, cioè significa che non ho manager, etichetta, editore. Recentemente come sapete ho licenziato anche il cantante. Al mio fianco ci sono le persone che credono che il mio lavoro consista nel creare qualcosa che prima non c’era e insieme proviamo ad andare oltre a quello che si vede o creare una cosa che non c’è. La formula magica non c’è, ma come detto: il viaggio è lungo.
A te che mi leggi e anche un po’ a me che scrivo: sii te stess*, sii content* di non essere come gli altri e le altre, anzi investi proprio in quello, circondati di persone che desiderano fare un pezzo di strada con te. Ogni giorno si ricomincia da capo, a tutt* verrano i capelli bianchi, la pancia, i reumatismi e i numeri saranno un lontano ricordo. Rimarrà quanto sei riuscit* a restare te stess* attraverso i cambiamenti e non quanto ti sei adattat* a quel sistema. Stammi a sentire, mandali affanculo.