La generazione di Mauro Ermanno Giovanardi di cose ne ha viste parecchie. Ha vissuto l’epoca delle etichette indipendenti come la Vox Pop, di cui ha fatto parte – «ci sentivamo degli eroi, ci facevamo il culo e lavoravamo solo con gruppi di cui eravamo convintissimi» – ma ha anche assaporato l’età d’oro della discografia, quando le major hanno iniziato a investire sulle band rock e il pubblico è diventato numerosissimo.
«Stavamo in giro 200 giorni all’anno. Solo con gli incassi del merchandise del tour invernale del ’97 ci siamo comprati un furgone. I soldi veri li ha fatti Ligabue che con Buon compleanno Elvis ha superato il milione, noi appena 40mila, ma non potevamo lamentarci. E comunque li ho spesi tutti».
Lui ride, ma sa bene che oggi qualsiasi rapper baratterebbe la madre pur di vendere “appena” 40mila copie. Poi, è crollato tutto: «Nel 2001 era già evidente, due anni dopo Napster c’erano miliardi di file musicali in rete. Le major non hanno capito il fenomeno e sono andate giù. Se un batterio entra in un dinosauro, dopo un po’ lo fa fuori». Già ai tempi si poteva fare qualcosa, come calmierare il prezzo delle singole tracce, abituando il pubblico a comprare online. «È come con Netflix o con il wireless: quando capisci che una cosa è utile e comoda, non puoi più farne a meno».
Questo è lo sfondo de La mia generazione, il nuovo album dove rilegge brani di Subsonica, Marlene Kuntz, Massimo Volume e altri ancora. Racconta un momento di cambiamento importante, quando il nostro rock decide di abbandonare l’inglese per l’italiano e i cantanti vogliono stupire chi li ascolta con parole incomprensibili: «Siamo cresciuti con il punk. Se a 20 anni vai a Londra e vedi i Sex Pistols fare tabula rasa dei Jethro Tull, quando torni a casa vuoi fare lo stesso con De Gregori. Anche parlare d’amore sembrava una bestemmia e, obiettivamente, era più facile scrivere testi ermetici, potevi dire tutto e niente. C’è voluto del tempo per capire che è stato uno sbaglio ignorare Tenco, le sue canzoni hanno lo stesso spessore di quelle di Leonard Cohen».
È il disco più difficile che abbia mai fatto: «Una cover deve calzarti addosso in modo credibile. Non è facile riarrangiare Aspettando il sole di Neffa tenendo botta per quattro minuti o cantare Forma e sostanza senza scimmiottare Ferretti». Gli confesso che non ho mai capito cosa volesse dire in quella canzone, e lui: «Neanch’io, ma qualcosa lo intuisci (ride, nda). Non è la mia preferita dei C.S.I., ma può dirsi il vero manifesto di quel periodo». Musica, colpisci al cuore.