Sono da poco passate le 19 e l’atmosfera nel backstage della Unipol Arena di Bologna (ma i bolognesi lo chiamano ancora Palamalaguti) appare rilassata, nonostante non manchi poi molto all’inizio dello show. I camerini degli Who sono vicinissimi, eppure inaccessibili: la loro presenza si avverte solo quando, nel corridoio, ci viene detto di fare silenzio perché Pete Townshend e Roger Daltrey si stanno riposando prima del concerto.
I tecnici, nel frattempo, fanno avanti e indietro tra il palco e il retro occupandosi degli ultimi preparativi. Uno dei più indaffarati è sicuramente l’addetto alle chitarre di Simon Townshend, fratello più piccolo del più celebre Pete e dal 2002 anche chitarrista ritmico degli Who. Quando me lo presentano è talmente preso dal suo lavoro che neanche mi dice il nome, ed è un peccato: ogni concerto è tale grazie al lavoro di decine di professionisti che hanno avuto un ruolo centrale nella storia del rock pur restando sconosciuti al grande pubblico. E così mentre lui mi racconta di essere finito a lavorare per gli Who dopo una carriera passata al fianco di Jimmy Page, penso che sarebbe bello provare a raccontare la sua storia, ma non c’è neanche il tempo di chiederglielo che già sta correndo dalla parte opposta del backstage per risolvere chissà quale problema dell’ultimo secondo.
Ogni tanto mi affaccio davanti per controllare se il palazzetto si sta riempendo: le prime file sono già popolatissime. Gli Who sono uno dei pochi gruppi – l’altro sono senza dubbio alcuno gli Stones – che la gente va a vedere indossando fieramente le T-shirt con il logo del gruppo.
Sembra un’informazione di poco conto, ma non lo è: una delle leggi non scritte della coolness applicata ai concerti dal vivo riguarda proprio il non indossare mai la maglietta della band che si sta andando a vedere. Eccezion fatta, forse, proprio per quei gruppi il cui simbolo è divenuto nel tempo un vero e proprio marchio di fabbrica e segno di appartenenza. Il celebre “bersaglio” qui lo puoi trovare ovunque: sulle magliette della gente, appunto, ma anche sui flight case degli strumenti e sull’etichetta dello champagne prodotto da Roger Daltrey e che viene venduto al merch al “modico” prezzo di 125 euro a bottiglia. Vorrei assaggiarne un sorso, solo per capire se ne vale la pena o meno, ma l’unica roba che mi viene offerta da bere è una birra da Ben, il bassista degli Slydigs, la band che sta accompagnando gli Who in tutto il tour mondiale per il cinquantesimo anniversario.
Quando li raggiungo nel loro camerino mancano pochi attimi alla loro salita sul palco.
Peter, il batterista, è tesissimo: sta tutto il tempo in piedi, indossa un gilet con cravatta al collo su petto nudo, e continua a far roteare le bacchette, mentre gli altri appaiono decisamente più rilassati. Ben, scherzando, mi chiede tre sterline per la lattina di Moretti che mi ha appena lanciato. “Sai, a noi qui fanno pagare tutto”, scherza. Sono mesi ormai che gli Slydigs girano in tour con gli Who ma non sembrano essersi ancora abituati a tutto questo. “Noi veniamo da un paesino che si trova esattamente a metà tra Manchester e Liverpool”, dice Dean, il cantante. “Si chiama Warrington” – aggiunge Louis, il chitarrista – “Ma non dire che l’hai già sentito nominare perché non ti credo”.
La loro storia sembra perfetta per finire raccontata in uno show tipo Vinyl, per quanto appare inverosimile: “Dei tizi che lavorano per il management degli Who ci hanno visto suonare in un paio di pub della nostra zona, ci hanno chiamato ed eccoci qua”. Basta, nessuna dietrologia.
“La prima data con gli Who l’abbiamo fatta a Liverpool. E tra il pubblico c’era pure mia madre. Ricordo che prima di cominciare volevo andarmene via. Ero terrorizzato” – racconta sempre Dean – “poi sono salito sul palco, ho attaccato la chitarra e mi sono reso conto che avevo preso quella preparata già per la seconda canzone, accordata due toni sotto. È andata di merda, poi però le cose sono migliorate”. La madre di Dean è qui anche questa sera: si è appena sposata col suo compagno ed è venuta in luna di miele a Roma: “Non vedo l’ora di dedicarle una canzone. Chissà se si metterà a piangere!” (spoiler: si è messa a piangere).
Fino a prima di questa esperienza i concertoni rock li avevano vissuti solo da spettatori. “Siamo consapevoli di stare vivendo un sogno. E per nostra fortuna gli Who hanno un pubblico splendido. Avevamo un sacco di paura sul tipo di accoglienza che avremmo ricevuto e invece la gente ci ha voluto bene fin dal primo concerto. È strano, alla fine per loro siamo dei completi sconosciuti: non abbiamo ancora fatto un disco, non abbiamo neanche un contratto discografico, però la gente sente le nostre canzoni e si prende bene.” Già, e come sono le canzoni degli Slydigs? Genericamente rock, genericamente figlie degli anni ’60 ma anche degli Oasis, pure genericamente stradaiole con alcuni momenti che ricordano quasi i Guns N’ Roses. Niente di nuovo, quindi, eppure il pubblico sembra davvero gradire.
Durante la loro esibizione non c’è nessuno che protesta o fischia, tant’è che quando finiscono di suonare e danno l’appuntamento al merch vengono quasi presi d’assalto da gente che vuole comprare il loro EP o farsi solo qualche selfie. Le ragazze, poi, sembrano essere state particolarmente colpite dal gruppo, tant’è che anche prima nel backstage qualcuno dello staff degli Who scherzava sul fatto che gli Slydigs sono sempre circondati da donne (d’altronde essere poco più che ventenni in tour composto quasi solo da gente ben sopra gli anta deve pure avere qualche vantaggio). Finito il loro set il palco viene sgomberato in tutta fretta mentre il ledwall gigante alle spalle degli Who comincia a inondare il pubblico di informazioni.
Questo di Bologna è il secondo concerto della band dopo una data leggendaria in quello che ora si chiama Paladozza nel 1967. Tra un’informazione e un messaggio di solidarietà per le vittime del terremoto, un video con Keith Moon e uno con John Entwistle, viene mostrato ripetutamente un cartello che invita la gente a non fumare. Roger Daltrey è allergico al fumo e questo potrebbe compromettere la sua performance vocale. “Perché invece non vi mangiate una di quelle torte speciali?”
Neanche il tempo di pensare a una platea di gente di mezza età completamente fatta di space cake che sullo schermo compare la scritta “Stai calmo e arrivano gli Who!” (traduzione un po’ sportiva del classico meme: “Keep calm and…”). L’inizio è incredibile: I Can’t Explain, The Seeker, Who Are You, The Kids Are Alright, I Can See for Miles e My Generation. Chi altro può mettere in fila una sfilza di singoli del genere? Manca solo Substitute e sarebbe stato perfetto, ma anche così davvero è impossibile lamentarsi.
Roger Daltrey sembra sempre di più una versione fisicata (finirà il concerto a petto nudo, a 72 anni) di Flavio Briatore. Non è mai stato simpatico, ha pure sostenuto la Brexit, ma sul palco ci sa ancora fare come negli anni ’60 e ’70. I dubbi di quelli che avevano assistito al live degli Who all’arena di Verona di nove anni fa vengono fugati in pochissimi minuti: Roger questa sera la voce ce l’ha. E ce l’ha di brutto. Anche Pete Townshend sembra in grandissima forma: al primo “mulinello” l’Unipol Arena viene quasi letteralmente giù. Ha voglia di parlare, tra un pezzo e l’altro, e lo fa un sacco: chiede se c’è qualcuno di Ferrara, visto che i suoi nipotini sono per metà ferraresi (“Uno è un angelo, l’altro è cattivo”, scherza). Lui e Daltrey continuano a essere diversi in tutto, anche nel modo di occupare il palco e negli atteggiamenti nei confronti del pubblico. Il rapporto di amore/odio tra i due, una lotta che dura ormai da più di cinquant’anni, è forse il motivo per cui gli Who funzionano ancora così bene. Nonostante non facciano niente di nuovo da secoli, se non passare alla cassa.
Dopo My Generation vengo catturato da un gruppo di mod spagnoli venuti in Italia appositamente per il concerto. Sono molto gentili, vedono il pass attaccato sulla mia camicia in denim e pensano che io sia chissà chi. Insistono per offrirmi una birra e nel mentre cantano e ballano e si lamentano di un pubblico, secondo loro, troppo fermo e poco rumoroso: “E poi ci sono pure pochissimi mod”, dicono. La band sul palco è impeccabile.
Lo ammetto: non avrei mai pensato che un concerto degli Who nel 2016, al netto del repertorio, sarebbe stato così bello. La sezione ritmica, poi, è forse il vero valore aggiunto dello show: Pino Palladino (cori e ovazioni per lui come accade in ogni sua apparizione in territorio italiano) e Zak Starkey – prima o poi finiremo di chiamarlo: “Il figlio di Ringo Starr” – sono una vera macchina da guerra. Gli Who le stanno suonando tutte: la parte centrale del concerto è dedicata alle opere rock con quattro estratti da Quadrophenia (bellissima versione di Love, Reign, O’er Me) e Tommy (The Acid Queen, Amazing Journey, Sparks, Pinball Wizard e See Me, Feel Me… ) e la parte del leone la fanno anche gli estratti di Who’s Next.
Fa un po’ specie quando Pete Townshend nel presentarli dice: “Ho scritto questi pezzi nel 1972, voi non eravate neanche nati. Cazzo!” Il gran finale è ovviamente tutto per Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again che fanno terminare lo spettacolo in gloria. Mentre il pubblico viene fatto uscire noto i membri degli Slydogs in piedi sul tavolino del merch che scherzano con la gente e, finalmente, si accendono una sigaretta dietro l’altra. Fuori dalla Unipol Arena ci sono parcheggiate un bel po’ di Lambrette, e i parka sono ben più di quelli che si potevano scorgere dentro.
Chissà che fine hanno fatto i mod spagnoli…