Il Magnolia ha questa figata della webcam puntata verso il palco che manda immagini a vari proiettori nelle sale del locale. Uno di questi è stato furbamente piazzato davanti al bar e di fianco al merchandise. Così uno può fare la fila per la birra e comprarsi la maglietta con la scritta Goat in caratteri Fraktur senza avere l’ansia di perdersi l’ingresso della band sul palco.
Ma non è ancora il Magnolia estivo. Perciò, quando bassista, batterista e percussionista salgono sul palco per attaccare con un intro esteso e martellante di Words, il tendone ha già raggiunto temperature prossime a quelle sulla superficie solare. Ma non importa a nessuno.
Il cerchio si chiude con i due chitarristi — entrambi impugnano delle Stratocaster — e le due sciamane con le maschere di piume, le cantanti. Saltano, agitano le braccia, accennano macumbe rivolte alle prime file. Dalla maschera di una delle due spuntano boccoli rossi.
L’iperattività delle cantanti viene rimessa in bolla dalla posa granitica dei musicisti. Dei mostri, specie il bassista, che dà l’idea di aver masticato quintali di jazz prima di andare in tour con addosso una tunica nordafricana. Ogni tanto sorseggia una peroni in lattina da 33 cl.
Quasi tutta la scaletta brani, comprese Run To Your Mama e Talk To God, è stata allungata con parti strumentali estese. Una scelta geniale, molto anni Sessanta. Se gli Experience di Jimi Hendrix si sposassero con i Led Zeppelin, saprei chi fare suonare al rinfresco, penso tra me e me.
Sotto il palco si balla. Nelle file dietro, i ritmi ripetuti come mantra ti fanno ondeggiare. Un po’ come il pubblico degli Smashing Pumpkins in quella puntata dei Simpson dove Homer si fa sparare palle di cannone dritte in pancia ai concerti.
Per un attimo ho l’impressione di non vivere nel 2015. È una bella sensazione.