Il sound duro del metal rispecchia l’anno turbolento che si sta per concludere, e abbiamo scelto i dischi del genere del 2016 che vanno recuperati (beh, la prima posizione potete immaginarla facilmente).
10. “Gold” di Whores
“Good times, bad vibes” recita lo slogan già pronto per diventare un adesivo con cui gli Whores di Atlanta descrivono se stessi. Il loro debutto su disco lo dimostra benissimo. Due EP hanno aperto la strada al loro noise-rock sudicio da Amphetamine Reptile Records, mettendo in circolo swag e lamentele, ma anche l’estro sardonico dell’auto-disprezzo. “Where’s the money? Where’s the fame? I was told by now they’d know my name” si lamenta in maniera ironica il cantante e chitarrista Christian Lembach, nella furiosa Playing Poor in apertura, mentre in una canzone dal titolo eccellente come I See You Are Also Wearing a Black T-Shirt punzecchia i poseur senza strafare. Ma alla fine gli Whores prendono in giro soprattutto loro stessi– lo sanno e godono nel versare sale sulle proprie ferite. “You can call it a trophy/ I call it only the hole I poured my life into” canta Lembach con concitazione nella sbandante Participation Trophy. Speriamo manifestino la stessa irriverenza per la loro inclusione in questa lista. B.G.
9. “Mariner” di Cult of Luna and Julie Christmas
Quando la band post-metal svedese Cult of Luna si è lanciata in una collaborazione con la cantante Julie Christmas di stanza a Brooklyn, lo ha fatto in base al concetto di “viaggio nell’ignoto”. I cinque pezzi dinamici del disco rivelano nuove sfumature sia nell’ambient metal prosaico della band sia nei vocalizzi elastici di Julie Christmas, che variano dagli stridii di Bjork ai sussurri e alle urla strazianti, come già dimostrato nei gruppi Made Out of Babies e Battle of Mice. A differenza dei compari Neurosis che nel loro album collaborativo con Jarboe degli Swans hanno lasciato a lei il cantato, i Cult of Luna in Mariner continuano a farsi sentire, armonizzando i loro ruggiti con l’approccio più morbido ma anche le grida di Julie Christmas, in modo da farla sembrare un vero membro della band e non un’ospite occasionale. Quando questa interazione affiatata raggiunge il proprio climax nel crescendo a spirale di Cygnus è difficile negare che questo viaggio nell’ignoto abbia condotto in qualche modo a una rivelazione. B.G.
8. “Magma” di Gojira
L’applaudito quartetto francese prog-metal dei Gojira ha cambiato di colpo direzione al sesto disco, mettendo da parte gli eccessi tecnici a favore di un approccio più lineare e diretto. Il risultato consiste in pezzi insolitamente orientati al groove e canzoni in cui i Pantera si incontrano i Pink Floyd, come in The Shooting Star, Silvera, e nella title-track; il che di sicuro ha alienato qualche fan di vecchia data. Ma questa musica viscerale e che colpisce allo stomaco si è rivelata un mezzo particolarmente adatto per i vocalizzi catartici di Joe Duplantier e per i suoi testi emotivi, dichiaratamente ispirati alla malattia e alla morte della madre. L’epica atmosferica di Low Lands e la struttura asciutta del brano strumentale Liberation chiudono l’album con un breve cenno a una verità cosmica più grande, che va oltre la miseria e la cupezza della vita terrestre. D.E.
7. “Gore” di Deftones
Poiché sono stati il vocalist Chino Moreno e il bassista Sergio Vega (ex Quicksend) a scrivere la maggior parte dei pezzi, Gore pende verso il lato oscuro e artistoide dei Deftones. Ma il primo chitarrista Stef Carpenter trova ancora spazio per rilasciare scariche violente a sette corde in Doomed User e Jerry Cantrell degli Alice in Chains fa un’incursione dolorante in Panthom Bride. Un disco intenso e umorale che cambia registro senza avvisare, passando dal metal coriaceo al rock da stadio pieno di drammaticità, fino allo shoegaze e alle atmosfere spaziali. Gore è l’ennesimo capolavoro stratificato di una band che ha sempre dato prove di grandezza. D.E.
6. “Distopia” di Megadeth
Dopo che il leader dei Megadeth Dave Mustaine ha dovuto assistere alla defezione di metà della band dopo il tour del 2013 in seguito al disco Super Collider dall’impronta più commerciale, la sua reazione è stata arruolare il chitarrista dei Lamb of God Chris Adler e il vecchio chitarrista degli Angra Kiko Loureiro. Insieme a loro ha registrato pezzi thrash davvero feroci e capaci di colpire. Tracce saldamente elaborate come Death From Within partono con uno scatto da far rizzare la nuca (e rivelano gli intagli micidiali di Loureiro) mentre Fatal Illusion vanta riff da ottovolante stile Killing Is My Business… And Business Is Good! I moderati assoli di chitarra che popolano la coda del disco come in Dystopia, intanto, richiamano alla mente la lena del classico “Hangar 18” risalente al periodo di Rust in Peace. Un inaspettato e grandioso ritorno alla forma.
5. “Fires Within Fires” di Neurosis
Nel corso degli ultimi due decenni, i Neurosis hanno raffinato e limato i loro groove anni Novanta “riff-agita-ripeti” rintracciabili nel disco esemplare Through Silver In Blood, a volte inserendo delle texture folk o campionando delle inquietanti filigrane orchestrali. Il loro ultimo album, Fires Within Fires, non si discosta molto da questo proposito, sussurrando dilemmi allucinati come “The end is endless”. Ma quello che lo fa svettare in mezzo al resto, è il fatto di essere la rappresentazione più concisa della Neurosis Experience dai tempi di Times of Grace del 1999. I suoi cinque cataclismi sonori capaci di scuotere le fondamenta durano appena 40 minuti– il che è un nanosecondo per come i Neurosis concepiscono il tempo– e tutto cospira in favore del riff che macina lento e chiude il disco in Reach. La band ha sempre voluto fare arte piuttosto che metal– una sfumatura che gli emulatori psych-metal non hanno colto benissimo nel loro tentativo di scimmiottarne il suono negli ultimi anni– e con Fires Whitin Fires ha creato un lavoro all’altezza dei vecchi maestri. K.G.
4. “Dissociation” di The Dillinger Escape Plan
Dopo vent’anni di delirio mathcore, i Dillinger Escape Plan hanno deciso di darci un taglio, ma non prima di averci consegnato un commiato da far girare la testa. Ferocemente eclettico come tutto ciò che la band ha fatto in passato, Dissociation è un assembramento tortuoso di hardcore instabile, elettronica glitch, jazz-metal segnato dal caos e hard rock che tira i pugni, con degli hook genuini che ogni tanto si fanno largo in mezzo alla carneficina. E poi c’è la title-track che sigilla l’album (e la carriera dei DEP) in sei minuti di beat elettronici pulsanti, accordi funebri e crooning del cantante Greg Puciato che intona “Finding a way to die alone” come se fosse un mantra. Più che un’aggraziata uscita di scena, è una porta che viene sbattuta di colpo. D.E.
3. “What One Becomes” di Sumac
Da anima indipendente che anticipa i gusti, Aaron Turner ha iniziato a esplorare percorsi sempre più noise e ambient dopo lo scioglimento degli Isis, famosa e ipnotica band post-metal, ma il secondo disco di Sumac – nato dalla collaborazione con il vigoroso batterista hardcore Nick Yacyshyn – fa sì che Turner consegni al pubblico il suo disco art-metal più carico di incisività negli ultimi cinque anni e rotti. C’è una certa familiarità con i lavori precedenti data dal ruggito rauco di Turner e dalla sua tendenza alla ripetizione, ma What One Becomes è una sfida esplorativa e sperimentale, un disco pieno di detonazioni sludge dissonanti e veloci colpi di math; di metal che vaga per i deserti di Morricone, picchiate pulsanti stile Swans e sezioni aperte all’improvvisazione. Il raggio d’azione di questi elementi sembra senza limiti e si estende persino all’eccellente EP che accompagna il disco, Before You Appear, featuring i forsennati trattamenti elettronici di James Ginzburg degli Emptyset, il veterano del noise americano Kevin Drumm e altri ancora. C.W.
2. “The Violent Sleep of Reason” di Meshuggah
La perfezione bionica è ormai una seconda natura per i Meshuggah, ma per compiere un ulteriore salto in avanti, la consolidata band svedese ha dovuto far pace con il proprio lato umano. Per The Violent Sleep of Reason, il gruppo ha registrato live in studio per la prima volta in oltre vent’anni, riproducendo in maniera fedele il sudore del batterista Tomas Haake mentre si fa largo tra riff labirintici alla velocità della luce. Sta di fatto che i famosi pezzi bizantini della band non hanno mai avuto un tono così forsennato e punitivo: il ritmo tagliente di Born in Dissonance svetta su brani fondamentali dei Meshuggah come Bleed, mentre il serpeggiamento infinito di By the Ton fa sì che il quintetto raggiunga livelli di composizione che lasciano sconcertati. Un intero sotto-filone del metal, il djent, è nato dall’inconfondibile marchio di fabbrica dei Meshuggah, ma Violent Sleep prova che i suoi fautori sono ancora qui per dettare la linea. H.S.
1. “Hardwired…. To Self-Destruct” di Metallica
Anche se la band metal per eccellenza si è rivelata una delle più imprevedibili nel settore (nessuno si aspettava quella collaborazione con Lou Reed), i Metallica danno il loro meglio quando si mettono a fare i Metallica. Il loro decimo disco, Hardwired… to Self-Destruct – una sorta di psicodramma in due atti sull’involuzione dell’umanità– li ritrova alle prese con i suoni dei loro primi dischi: ritmi mitraglianti, riff senza rimedio e testi apocalittici abbaiati in tono marziale. Nella concitata traccia di punta Hardwired, il fatalismo di James Hetfield raggiunge picchi drammatici (“We’re so fucked!”, dice) mentre la canzone di chiusura nonché uno degli apici del disco Spit Out the Bone, è un atto d’accusa contro le tecnocrazie. Ci sono echi dei loro album manifesto, il Black Album e Master of Puppets, ma anche influenze formative come il groove dei Black Sabbath, le orchestrazioni dei Mercyful Fate e il piglio teatrale degli Iron Maiden, che fanno di Hardwired… to Self-Destruct una testimonianza fedele dell’esperienza accumulata dai Metallica negli anni. E la cosa migliore è che non hanno scritto neanche una ballata per l’occasione. K.G.