In un tweet del 2016, Billie Joe Armstrong dei Green Day ha dichiarato guerra al pop-punk. “Ho sempre odiato quest’espressione”, ha spiegato dopo su Kerrang! “Penso sia una contraddizione in termini. O sei punk, o non lo sei”.
Ma in un modo o nell’altro, quella contraddizione – l’idea di una forma d’arte così devotamente underground con un importante appeal mainstream – è sempre esistita. Dai grandi sfasciati degli anni Settanta (Buzzcocks, Undertones) agli eroi hardcore anni Ottanta (Misfits, Descendents), agli hitmaker degli anni Novanta (Green Day, Blink-182) e oltre, le band punk hanno sempre messo in mostra una grande capacità di scrittura accanto alla loro posizione anti-autoritaria. E il focus del punk per la velocità, la concisione e la semplicità dei tre accordi si sposa naturalmente con i valori fondamentali del pop.
Durante gli anni, quello che ora conosciamo come pop-punk si è trasformato rapidamente, evolvendosi con i tempi e le mode. Come la New Wave e il college rock, estetiche ska, rap, emo e persino da boy-band sono entrate nel mix, ma una caratteristica è rimasta costante: il pop-punk è per i ragazzi, o quantomeno per chi si sente ancora adolescente. È di per sé impertinente, pieno di angoscia, autocritico e divisivo sul piano generazionale. È anche tenero e romantico, abbonda di nostalgiche e svenevoli scene da primi amori, baci che cambiano la vita e tragiche rotture sentimentali. È in OC e One Tree Hill, la soap opera adolescenziale del rock contemporaneo. I primi brani di gruppi straordinari come Blink-182, Simple Plan, Sum-41 e, sì, anche dei Green Day, parlavano sempre di uno sviluppo bloccato, un testardo desiderio di non crescere mai. E i fan che tornano a questi dischi classici dopo dieci, quindici o vent’anni possono sentire di non averlo fatto mai, presi da uno stato di beatitudine targata What’s My Age Again?.
“L’intero spettro dell’esperienza umana, tutto quel desiderio e quell’insicurezza, sono perfettamente riassunti in quegli anni formativi”, ha scritto nel 2016 Amanda Petrusich del New Yorker a proposito del potere dell’emozione adolescente, riflettendo sul ritorno dei Blink-182. “È lì che vive il pop-punk. La sua crudezza non sta tanto nella musica ma nella novità inebriante di quei sentimenti”.
Per celebrare questo movimento duraturo e molto amato, contiamo alla rovescia i cinquanta migliori album pop-punk nella storia. Dai Buzzcocks ai 5 Seconds of Summer, ecco il nuovo canone del punk.
50. “Half-Fiction” di Discount (1997)
Molto prima della transizione alle band blueseggianti e fatali come Kills e Dead Weather, Alison Mosshart ha regnato come soprano durante i suoi sei anni nei Discount. Il gruppo originario di Vero Beach ha realizzato uno dei suoi primi lavori per la prolifica etichetta Fueled by Ramen; i musicisti non si erano ancora diplomati al liceo quando sono diventati un cardine dell’eredità pop-punk della Florida. Il seguito del loro sfavillante debutto del 1996, Ataxia’s Alright Tonight, Half Fiction è un’opera confessionale fatta gloriosamente alla buona, che il chitarrista dei New Found Glory Chad Gilbert ha elogiato come “una grandissima influenza su di noi persino rispetto al punk della West Coast”. Scritto al tramonto dell’adolescenza – dopo che la band aveva già girato in tour con J Church e Less Than Jake – pezzi Jangle come Clap and Cough e Pocket Bomb sono stati tagliati, incollati e cuciti assieme nel modo in cui potrebbe suonare una tour zine di Aaron Cometbus dopo essere stata filtrata attraverso un mucchio di Marshall. Mosshart ha detto a Lenny nel 2016: «Quando avevo tredici anni, i ragazzini con cui facevo skate hanno pensato, Cazzo, procuriamoci degli strumenti e mettiamo su una band, perché è quello che fai quando sei una skateboarder. Quando avevo quattordici anni, eravamo già in tour. Non ci fermavamo… Ho visto il mondo da molto giovane. I miei genitori provarono a dirmi di no qualche volta, ma ero molto testarda. Dicevo, Questo è quello che ho bisogno di fare». S.E.
49. “RVIVR” di RVIVR (2010)
Le RVIVR non rievocano necessariamente il sound delle loro concittadine (Olympia, Washington) Bikini Kill, ma queste impetuose punk femministe rispecchiano lo spirito del movimento delle Riot Grrrl, capaci di risultare muscolari evitando completamente il machismo. Il canto teso e alternato tra Erica Freas e Mattie Jo Canino – di un’altra beneamata band pop-punk, i Latterman di Long Islands – partoriscono ritornelli da cantare in coro sul trovare qualcosa in cui credere (“Old friend, hold on/If nothing than to this song”, risuona Canino in Edge of Living) e le perdite inevitabili che arrivano con il crescere (“”We’ll have to dream up the ones that we missed because nothing about life is forever”, urla Freas su un furioso beat hardcore in Grandma). “Cazzo se c’è un sentimento di disperazione”, ha detto nel 2017 Canino a Unbelievably Bad Mag del sound delle RVIVR. “Ma si trova nell’oscillazione di un pendolo con momenti di invincibilità”. M.S.
48. “5 Seconds of Summer” di 5 Seconds of Summer (2014)
Con il loro debutto omonimo, i 5 Seconds of Summer si sono presentati come la perfetta unione tra una boy band e un gruppo rock, raggiungendo quello a cui tantissime band pop-punk hanno sempre aspirato senza mai riuscirci in pieno. Il primo singolo e inno adolescenziale ricco di feromoni ad occhi spalancati She Looks So Perfect riassume la miscela del quartetto australiano stile One Direction-in tour con-All Time Low. Pensate ai 5SOS come ai figli più politicamente corretti dei Blink 182, e una delle poche band su questa lista che scrive delle pene liceali (Good Girls, Social Casualty, End Up Here, virtualmente ogni altro pezzo su 5 Seconds of Summer) da una prospettiva autenticamente adolescenziale. Il loro abbandono giovanile è incentrato su melodie dolcissime, armonie in quattro parti e, ovviamente, chiome da sogno. Come ha scherzato il chitarrista solista Michael Clifford nella cover story di Rolling Stone dedicata alla band, “Diciamocelo, metà del pop-punk parla solo di acconciature”. M.S.
47. “Never Hungover Again” di Joyce Manor (2014)
I primi anni dei Joyce Manor sono stati spesi oscillando tra punk frenetico e pop iper-emozionale. “La prima cosa che abbiamo fatto era pop-punk col desiderio di essere hardcore, e ci siamo riusciti”, ha detto il cantante-chitarrista Barry Johnson a L.A. Record dopo la pubblicazione del terzo album della band, Never Hungover Again. “Quello ci ha dato la fiducia di concentrarci su più roba pop, per cui prima ci sarebbe mancata il coraggio – voler scrivere vere e proprie canzoni pop, nel bene o nel male”. E ci è riuscito: Never Hungover Again è un pugno di pezzi pop nostalgici e accattivanti eseguiti in 19 efficienti minuti. Qui, i Joyce Manor hanno smussato gli spigoli delle loro canzoni, lasciando che le melodie respirassero e facessero spazio affinché gli hook colpissero allo stomaco. Le urla pensierose e i testi empatici di Johnson sugli errori di gioventù (Heart Tattoo) e il malessere post-adolescenziale (Catalina Fight Song) hanno contribuito a rendere Never Hungover Again un album pop-punk nel quale anche chi odia il pop-punk può trovare una forma di gioia. L.G.
46. “Good Charlotte” di Good Charlotte (2000)
“Questa canzone è dedicata ad ogni ragazzino che sia mai stato preso di mira nell’ora di ginnastica”, inizia Little Things, la traccia di apertura sul disco omonimo dei Good Charlotte. L’intro è la tesi che vale per l’intero disco: quattordici pezzi per i perdenti, i ragazzini sfigati, per chiunque abbia mai sognato di lasciare la propria piccola città. Good Charlotte è un disco che sa che i teenager hanno bisogno del pop-punk; la maggior parte delle canzoni si svolge nei corridoi della scuola dove i quattro amici si incontrarono. I pezzi di Benji e Joel Madden fanno perno su testi schietti come “So che non c’entro nulla con te e con i tuoi amici snob” o “Aiutami/Voglio tirarmi fuori da questo letto”. “Quando abbiamo registrato il nostro primo disco, ero all’ultimo anno di liceo”, ha ricordato una volta il chitarrista Billy Martin. “Eravamo super giovani e quel disco era così semplice”. P.V.
45. “Breaking Things” di All (1993)
Dopo che il cervellotico frontman dei Descendents Milo Aukerman ha deciso di dedicarsi finalmente alla scienza invece che al punk nel 1987, i membri rimasti hanno cambiato il loro nome in All – il titolo dell’ultimo LP dei Descendents degli anni Ottanta – e hanno continuato a provarci. Sono andati in tour e hanno registrato senza sosta negli anni successivi con i talentuosi cantanti Dave Smalley e Scott Reynolds, ma hanno avuto problemi nel conquistare pubblici legati al loro vecchio sound. (“Sapevamo tutti che All è la band colpevole di non essere i Descendents”, ha ironizzato il batterista-compositore Bill Stevenson nel documentario sui Descendents/All nel 2014, Filmage.) Tutto si è poi acceso, musicalmente se non commercialmente, con Breaking Things del 1987, in cui la voce roca del nuovo cantante Chad Price era parte integrale del materiale più aggressivo che Stevenson e soci abbiano mai scritto. In pezzi come Original Me e Right, la band ha combinato tutta l’energia scavezzacollo e la melodia crescente dei Descendents al loro meglio con una robusta carica rock. E in tracce brutalmente catartiche come Guilty e Birthday I.O.U., hanno sostituito al desiderio adolescenziale della vecchia band un tipo di preoccupazione più adulta. Altri validi dischi degli All si sono susseguiti negli anni successivi – tra cui un full-length su major, Pummel del 1995 – ma Breaking Things resta un picco per questa band brillante e sottovalutata che ha vissuto all’ombra del mito di Milo. H.S.
44. “Sing Sing Death House” di The Distillers (2002)
La frontwoman dei Distillers Brody Dalle aveva solo diciotto anni quando ha lasciato il suo rifugio presso una donna in Australia, sposato Tim Armstrong dei Rancid negli Stati Uniti e firmato per la Hellcat Records. Ma ha raggiunto lo status di semidea globale nel 2002 dopo che la sua ballata The Young Crazed Peeling ha debuttato su MTV – ispirando un’ondata di giovani donne con creste e voglia di libertà. “Ci dovrebbero essere più ragazze a suonare rock”, Dalle ha detto a Safety Pin Girl nel 2002, “e non a predicare sul fatto che sono donne. Quello ne fa ovviamente parte quando sei lì sul palco, ma devi lavorare, cazzo”. Lasciate a una band impavida come i Distillers il compito di infilare una canzone sulla Convenzione di Seneca Falls in Tony Hawk’s Pro Skater 4, o a estrarre oro pop dal burbero sottobosco di L.A. in City of Angels. Dalle ha commentato poi il titolo dell’album in un’intervista per Sink Hole Zine, condotta fuori da un bagno a New Haven nel 2002. “Stavo guardando un documentario su Sing Sing, la prigione”, ha ricordato. “Mi piaceva davvero il titolo come riferimento per una persona. Come nei libri sui sogni, una casa rappresenta te stessa, il tuo corpo. Ecco da dove è venuto il titolo. Sing Sing Death House non è una catarsi, è solo una rappresentazione di come si può affrontare la merda”. S.E.
43. “Blue Skies, Broken Hearts … Next 12 Exits” di The Ataris (1999)
Molto prima di entrare nella Top 40, gli Ataris cazzeggiavano su base quotidiana a Anderson, in Indiana, abbuffandosi di film anni Ottanta e scrivendo pezzi sulle rotture sentimentali alla Descendents a ripetizione. In Blue Skies, Broken Hearts … Next 12 Exits, il loro secondo LP, questi romantici midwestern si preoccupano di stagionare la loro pena adolescenziale con botte di auto-coscienza (My Hotel Year) e inni positivi sulle cotte (San Dimas High School Football Rules). Il frontman Kris Roe diventa completamente sdolcinato quando promette di derubare un Kwik-E-Mart per la sua cotta nella ballata I Won’t Spend Another Night Alone – brano così buono da ricomparire sul crossover mainstream So Long, Astoria. A rendere Blue Skies speciale è il sentimentalismo genuino e non flitrato dei suoi contenuti, canzoni così tenere da far sorvolare sul giovanilismo stucchevole di This Is the Last Song I Will Ever Write About a Girl. Come ha detto del pezzo Roe undici anni dopo, “L’angoscia è buona solo quando hai diciannove anni e sei pieno di ideali frivoli. Quando hai 33 anni, due matrimoni alle spalle e stai cercando di trovare te stesso, guardi indietro e ridi dell’angoscia”. S.E.
42. “Let’s Talk About Feelings” di Lagwagon (1998)
Se Punk in Drublic dei NOFX è il farfuglio di un punkabbestia svenuto su una panchina del parco, il capolavoro di punk melodico dei Lagwagon Let’s Talk About Feelings è il suo fratellino sensibile che distribuisce volantini per ritrovare le persone scomparse. Procurandosi materiale da black comedy come Welcome to the Dollhouse e Swimming with Sharks, i Lagwagon hanno evitato la comicità crassa e il sessismo scatenato dei fratelli skate-punk, alla ricerca di materia più torbida. “Non ti guarderò ammazzarti per vivere”, canta Joey Cape in The Gun in Your Hand; in Love Story, invece, se la prende con un narcisista, sospirando “Il dramma è estenuante e preferirei stare da solo”. Lungo tutto l’album, riff metal affilatissimi e ritmi abili completano il piglio asciutto di Cape, una miscela che la band californiana ha perfezionato in May 16, che racconta la storia di Cape disinvitato dal matrimonio di un amico. Sarebbe diventata la canzone più popolare della band, in seguito, inclusa in Tony Hawk Pro-Skater 2, capace di consolidare Feelings come una via di accesso nell’opera della Fat Wreck Chords. “La band stava davvero iniziando a stancarsi di quell’immagine da pop futile che sembravamo avere”, ha detto Cape a Noisey nel 2014. “Ma adoro il sound di Feelings. Mi piace a livello sonico ed è anche piuttosto poppeggiante. Mi piace la musica pop”. S.E.
41. “The Greatest Generation” di The Wonder Years (2013)
Il frontman dei Wonder Years Dan “Soupy” Campbell ha detto al blog musicale Mind Equals Blown che i membri della grande generazione americana ai tempi della Seconda Guerra Mondiale gli hanno fatto capire il suo desiderio di essere coraggioso: “Ho passato tutta la mia vita, la mia intera esistenza, a essere contento della mediocrità”, ha detto. “Spaventato dalla grandezza perché avevo paura del fallimento, e sono nascosto dietro qualsiasi cosa potessi”. Per Campbell e la sua band, superare quella forma mentis è equivalso a sbandierare orgogliosamente la propria educazione nella Philadelphia suburbana e il profondo affetto per il pop-punk zuccheroso della propria gioventù – la condensata euforia dei Motion City Soundtrack, la botta melodica degli Starting Line, i ganci super carichi dei Blink 182 – in questo album del 2013. Canzoni come la muscolare We Could Die Like This fanno sembrare l’essere cresciuti in quartieri con prati ben curati un motivo di vanto.
40. “Hopeless Romantic” di Bouncing Souls (1999)
Con il quarto album, i Bouncing Souls hanno ottimizzato la propulsione nervosa del loro disco precedente in canzoni pulite e catartiche che catturavano ancora la gioia confusa di un concerto gremito in un seminterrato. Nella sghemba Bullying the Jukebox, questi eroi della porta accanto di New Brunswick in New Jersey descrivono il loro ethos punk alla tutto è permesso quando dicono di riempire una playlist di “Canzoni di punk e canzoni di gioia/Canzoni d’amore su ragazze e ragazzi/Canzoni metal e roba inglese/E qualche canzone hardcore per farci sentire dei duri”. Discutendo del classico pieno di cori Ole con Alternative Press, il frontman Greg Attonito ha detto, “I testi sono completamente stupidi. Li abbiamo scritti e basta. Forse sarebbe potuti diventare qualcos’altro, ma perché preoccuparsi? Si trattava solo di gridare ‘Ole’ ed essere felici”. L.G.
39. “My Brain Hurts” di Screeching Weasel (1991)
C’è stato un tempo, prima che i Green Day esplodessero, e molto prima che Ben Weasel utilizzasse Twitter per dare voce alle sue opinioni politicamente scorrette o attaccare violentemente le donne ai suoi show, in cui non si poteva andare ad un concerto punk senza vedere il logo degli Screeching Weasel tatuato su almeno un braccio nel pubblico. C’era anche un tempo in cui ognuno voleva provare a pareggiare il ringhio e la velocità della band, inclusi i Blink 182, che suonavano cover dei Screeching Weasel nei loro giorni prima della fama. Il sound influenzato dai Ramones che avrebbe poi suggestionato un migliaio di imitatori emerge al meglio nel terzo LP della band, My Brain Hurts. Weasel è al suo apice misantropico qui, quando canta di adolescenti strambi, una ragazza che si ripulisce dalle droghe e come le persone gentili gli danno la nausea, buttandoci dentro persino dentro un’inaspettata cover di I Can See Clearly Now di Johnny Cash. J.D.
38. “Ocean Avenue” di Yellowcard (2003)
A quanto pare gli archi erano proprio il tassello finale del puzzle del pop-punk, come provato dal violinista dei Yellowcard, Sean Mackin, che ha aggiunto dramma cinematico a tracce come Only One e Twentythree. Il quarto album della band di Jacksonville, Florida, si è inserito direttamente nel cuore adolescente del pop-punk dei primi anni 2000, puntando sulle notti senza fine e la bellezza intensa dell’amore adolescente e del rimanere per sempre giovani, tematiche che hanno aiutato a rendere un classico il singolo da arena Ocean Avenue. “È divertente che sia stata proprio Ocean Avenue a portare la band sotto le luci della ribalta”, ha ricordato il cantante Ryan Key in un’intervista del 2012. “La canzone ha rischiato di non far parte dell’album perché non riuscivo a finire di scrivere il ritornello”. B.S.
37. “The Undertones” di The Undertones (1979)
Nel ’79 post-Pistols, la Londra dei Clash stava chiamando a sé gli zombie della morte, e i Gang of Four se ne stavano da una parte a cercare di stanare il marcio dal sogno ad occhi aperti. Gli Undertones vivevano nel bel mezzo del conflitto nordirlandese, ma hanno optato per la solarità, cercando di fare baldoria nell’ansia suburbana e nell’artificio pop da veri eroi insulsi. “È stato un modo positivo di riempire il nostro tempo invece di partecipare alle proteste”, ha detto a Noisey il chitarrista John O’Neil. “Ero anche un teenager molto ingenuo e diffidente. Non avevo la sicurezza necessaria per scrivere della situazione politica in maniera pertinente”. Invece la band aveva assorbito la lezione di Phil Spector, dei Brill Building, dei e dei Ramones, cantando di separazioni amorose (Get Over You) e frustrazione sessuale (Girls Don’t Like It) con ganci new wave che rendevano i loro inni alla friendzone sia malinconici sia divertenti, unendo i puntini tra Jonathan Richman e i Descendents. Il pezzo rock alla I can’t get no satisfaction, Teenage Kicks, è diventato un classico moderno, coverizzato da chiunque, dai Green Day agli One Direction. C.R.W.
36. “Through Being Cool” di Saves the Day (1999)
Nel loro secondo album, il cantante-compositore dei Saves the Day, Chris Conley, e il resto della sua cricca di lunga data di Princeton, New Jersey, hanno perfezionato il loro approccio da cuori squarciato in bella vista (o, come in Rocks Tonic Juice Magic?, da cuore gettato sul pavimento) al pop-punk. “Ascolti i testi ed era tutto su questo ragazzo solitario, che desiderava qualcosa di più”, ha detto Colney ad Alternative Press nel 2014. “Il disco ha un sacco di malinconia, che sarebbe sfumata negli anni successivi. Ma le canzoni sono tutte molto emotive, piene di vita”. Le tracce oscillano fra tristezza e rabbia, ma è il modo in cui Conley intreccia queste emozioni che rende l’album così efficace: un momento gli manca tanto un’ex (Holly Hox, Forget Me Nots), quello dopo se la sta prendendo con un amico di merda (Through Being Cool). P.V.
35. “Unknown Road” di Pennywise (1993)
Nel 1993 i Bad Religion, nonni del pop-punk sud-californiano, stavano rallentando e diversificando il loro sound, e toccava ad una nuova generazione portare il testimone.. Con la loro sfacciata coscienza sociale e un dono per i pezzi da pugno in alto veloci e melodici, i Pennywise da Hermosa Beach erano decisamente i loro eredi naturali. Il loro secondo lavoro sulla lunga durata, Unknown Road, sintetizza un certo tipo di disco di pop-punk West Coast degli anni Novanta, animato da serie di riff filo-skate e quasi simil-thrash e da un perspicace ottimismo post-adolescenziale proveniente direttamente dall’ethos da Positive Mental Attitude dei Bad Brains. “City is Burning”, sui tumulti a Los Angeles, l’urlo anticonformista della title track e “Dying to Know”, in cui ci si fanno grandi domande, sono un forte ricordo del capitolo più genuino del pop-punk, prima che l’ascesa dei Green Day spingesse il genere in una direzione più frivola. “Ad alcuni può suonare pedante, come se stessimo predicando alla gente”, ha detto al Los Angeles Times il frontman Jim Lindberg nel 1994. “Anche se siamo un bersaglio facile per i cinici, non penso ci siano abbastanza band lì fuori pronte a dare messaggi importanti”.
34. “Dork Rock Cork Rod” di The Ergs! (2004)
Il trio del New Jersey Ergs! è andato a registrare il proprio debutto con basse aspettative: “Per noi era tipo, ‘Proviamo a fare questa cosa’”, ha detto a Noisey il batterista-cantante Mike Yannich, alias Mikey Erg. “Non c’era nessun ragionamento, semplicemente ‘Le band fanno album, noi facciamo un album”. Nonostante l’attitudine sorniona, la band ha realizzato un urgente, contagioso tour de force pop-punk, il tipo di album che ti fa venir voglia di pogare mentre urli di pene d’amore. “Sono innamorato, sono nei guai!”, urla Erg in First Song Side One (mai titolo più opportuno) prendendo riff dai Replacement e annunciando un LP di sedici pezzi che dura appena 32 minuti. Lungo il percorso, Yannich e soci fanno cenni a qualsiasi cosa, dall’hardcore all’hip-hop al doo-wop (per non parlare dei riferimenti a I Simpson e al libro di Henry Rollins Get in the Van). Ma l’album non si allontana mai dalle sue radici rapide e melodiche, aiutando a cementare lo stato di culto della band tra i fedeli del pop-punk.
33. No Pads, No Helmets … Just Ball” di Simple Plan (2002)
Il boom delle commedie adolescenziali dei tardi anni Novanta e primi Duemila ha aiutato a spingere il pop-punk verso pubblici più ampi, e il gruppo canadese Simple Plan eccelleva nel fare pezzi veloci, orecchiabili e dolci che somigliavano alle scene delle a cui facevano da colonna sonora come The New Guy, The Hot Chick e Confessions of a Teenage Drama Queen. Il drammatico scoraggiamento di I’m Just a Kid, il generico amore di I’d Do Anything e il pensieroso dramma familiare di Perfect catturavano la tipica mentalità da fine dei diciassette anni interna al genere. “Finché vivo, prometto di non cambiare per cui faresti meglio ad arrenderti/Non voglio che mi si dica di crescere”, canta Pierre Bouvier nel pezzo intitolato Grow Up, che tra l’altro mette in riga Good Charlotte, Sum-41, Blink-182 e MxPx. Oltre all’impressione pop-punk dell’album, i Simple Plan hanno beneficiato persino della partecipazione vocale di Mark Hoppus dei Blink e di Joel Madden dei Good Charlotte in un paio di brani.
32. “Jersey’s Best Dancers” di Lifetime (1997)
Il terzo album dei Lifetime mescolava il mondo dell’hardcore e del pop-punk come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Avevo zero autostima e pensavo solo che avrei dovuto starmene a casa a capire come ottenere un lavoro”, ha detto di quel periodo a Noisey il frontman Ari Katz. Ma le ansie di Katz non hanno fatto altro che arricchire i suoi testi poetici in Jersey’s Best Dancers: “Ti sei seduta su quella sedia come una regina in cucina”, canta in Turnpike Gates, “Ho memorizzato le linee formate dai tuoi occhi ogni volta che mi guardavi male”. Le loro odi alle indiscrezioni giovanili e alle tresche sentimentali nei seminterrati hanno consegnato alla città natale dei Lifetime, New Brunswick, in New Jersey, la sua opera underground. L.G.
31. “The Ultimate Escape” di Tsunami Bomb (2002)
“Gli Tsunami Bomb sono capitati in un momento in cui c’era molto punk”, ha ricordato la cantante Emily “Agent M” Whitehurst nel 2015, “ma il numero di vocalist donne in quel genere era piuttosto scarso. Ci siamo distinti”. A pensarci adesso, la composizione della band della Bay Area era un’anomalia nel genere, ma le canzoni degli Tsunami Bomb erano ancora più eccezionali: impennate melodiche rinforzate dalle inflessioni jazz e caramellose di Whitehurst. In seguito alla pubblicazione del loro EP del 2000, The Invasion From Within!, gli Tsunami Bomb sono diventati rapidamente un punto di riferimento del Warped Tour, e hanno pubblicato il loro primo LP, The Ultimate Escape, sulla Kung Fu Records dei Vandals. Prendendo spunto dal sound brutale della Youth Crew e l’ethos degli anni Ottanta, l’intenso debutto degli Tsunami Bomb si rivolge non all’avventatezza adolescenziale ma al costo delle sue cadute: “L’indipendenza non inizia quando lasci casa”, canta a tal proposito Whitehurst in Take the Reins, e invita i punk che invecchiano “a essere ciò che state diventando, e non ciò che eravate” in 20 Going On. The Ultimate Escape è uno schiaffo alle cricche di soli maschi, alla cultura della sbronza e alle vittime della sindrome di Peter Pan. S.E.
30. “The Art of Drowning” di AFI (2000)
Il quinto album in studio degli AFI è entrato nella Billboard 200 e ha permesso alla band della Bay Area di approdare al mainstream. Il liricismo gotico e i rapidi ritmi nord-californiani li hanno resi l’anello mancante tra i progenitori dell’horror-punk, i Misfits, e i ribelli emo My Chemical Romance, fatto che si nota soprattutto in Days of the Phoenix, una lode “ai teenager della morte, alle teenager della morte” che popolavano la loro venue natale preferita. Lo stesso anno, dopo la partenza di Michale Graves dai Misfits, l’androgino frontman Davey Havok è stato selezionato come suo sostituto, tuttavia Havok ha declinato. È stata una scelta dal tempismo impeccabile: dopo Art of Drowning, il profilo degli AFI è cresciuto straordinariamente negli anni a venire, specialmente tra le giovani donne. “Quando penso a quei tempi”, ha detto Havok nel 2017, “ricordo un cambiamento nella ratio uomo-donna nel pubblico. Eravamo soliti suonare solo per uomini. È figo che le cose sono cambiate a favore delle donne… per quello che ho imparato crescendo, le donne hanno sempre avuto un gusto migliore in fatto di musica”. S.E.