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I cinque dischi grunge più sottovalutati

Scrivere di grunge oggi, dopo la morte di Chris Cornell, significa anche ricapitolare quello che è accaduto negli ultimi vent'anni

Scrivere di grunge oggi, dopo la scomparsa di Chris Cornell, significa anche ricapitolare quello che è accaduto negli ultimi vent’anni, ed è davvero arduo se non addirittura sciocco farlo in modo tale da separare la propria vita personale dal resto. La musica… cosa sono le canzoni ascoltate in quei giorni se abbiamo paura di ricordare le aspettative e le ingenuità di allora? Le vittorie non lasciano il segno quanto le sconfitte. Ad oggi, saprei riconoscere con una sola occhiata quelli che hanno vissuto quegli anni: da qualche parte hanno il segno del morso. E poi ci sono gli assenti, quelle braccia che all’appello non si alzeranno più per rispondere “presente”, amici persi per una cazzata di troppo. Ecco perché, quando ho pensato a una possibile “rivalutazione” di alcuni dischi grunge che ritengo siano stati schiacciati dal successo di altri più fortunati (vuoi per alcune circostanze più o meno casuali, vuoi per una questione che ha a che fare con l’ermeneutica dell’esistenza artistica e umana), ho messo al centro del ragionamento due concetti, se posso definirli così: la morte e il limite.

Come ha scritto l’altro ieri Charles R. Cross in un suo pezzo dedicato a Cornell (titolo: It Began At The Ditto Tavern: Chris Cornell’s Life As Grunge’s True Seattle Son): “Of course it’s a story about death and Seattle music”. Forse la musica di Seattle è una musica che nasce dalla perdita e che muore con essa. Perché non c’è solo la morte di Andrew Wood, Kurt Cobain, Layne Staley, Scott Weiland e Chris Cornell a segnare i punti cardinali di questo disorientamento che ad alcuni sembrerà puerile e privo di forza attuale, ma c’è anche la morte dei nostri anni Novanta, dei nostri vent’anni. Assenze che possono essere colmate, com’è giusto che sia, solo da quello che è rimasto: i dischi e le storie raccontate intorno ad essi. E se alcuni album sono ormai ostaggio di una visione superficiale (basta pensare a Nevermind per averne un’idea), credo che ce ne siano altri che potrebbero avere ancora oggi una forza persuasiva potente, in grado di far muovere il culo e il cervello come pochi altri. Forse sono dischi perfetti a metà, giudicate voi, a me non interessa, quello che conta, per come la vedo io, è la loro autenticità.

1. “Apple” di Mother Love Bone (1990)

Ad ascoltarlo, vengono in mente i Led Zeppelin più boogie, certe ritmiche sleaze e quelle linee melodiche alla Brad Whitford e Tom Hamilton degli Aerosmith, ma il grunge è fatto così: non è mai stato in grado di contenere tutte le declinazioni stilistiche di quel periodo (hard rock, punk, metal, alternative, psychedelic…); insomma, è stato più simile a un movimento che a un genere musicale vero e proprio.
Band con potenzialità non del tutto espresse (un disco uscito postumo è davvero troppo poco), i MLB si formarono trent’anni fa dall’incontro dei futuri Pearl Jam Stone Gossard e Jeff Ament con Andrew Wood. La fine arrivò con la morte di quest’ultimo a soli 24 anni per overdose d’eroina. Una scomparsa prematura che, a pensarci adesso, sembra aver segnato in modo irreversibile la carriera di Chris Cornell, suo grande amico. Come se l’intera carriera di Cornell – e non solo il progetto Temple of the Dog – sia stata un unico grande tributo ad Andy Wood.

2. “Mudhoney” di Mudhoney (1989)

L’altro album che ho inserito nella lista della spesa è quello omonimo dei Mudhoney, album che fu preceduto da una cover (45 giri) di Halloween dei Sonic Youth che vi suggerisco di ascoltare col fegato in mano, prima di passare al disco. L’anno è il 1989. E se c’è una cosa di questo lavoro che mi piace davvero tanto è il suono ruvido e sporco che sembra uscito da una sbornia conviviale insieme agli Stooges.

3. “Sweet Oblivion” di Screaming Trees (1992)

Ho conosciuto gli Screaming Trees e la voce di Mark Lanegan con il loro disco di maggior successo commerciale, Sweet Oblivion, ma se la giustizia fosse soprattutto terrena, li avrei conosciuti prima con Buzz Factory, loro ultimo album targato SST, con Jack Endino alla produzione come garanzia. Ascoltare Black Sun Morning e Where the Twain Shall Meet per credere.

4. “Above” di Mad Season (1995)

Mark Lanegan, cristosanto Mark Lanegan. Sarei tentato di aprire un capitolo a parte solo per parlare delle voci del grunge: Staley, Cornell, Cobain… escluso Vedder per motivi personali e futili, è rimasto solo Mark Lanegan a strizzarmi le budella (mi riferisco ai suoi primi quattro dischi da solista, facciamo cinque). Mentre scrivo sto ascoltando Slip Away e basterebbe questa traccia a giustificare la rivalutazione totale di Above dei Mad Season, gruppone formato da Layne Staley degli Alice in Chains, Mike McCready dei Pearl Jam, Barrett Martin degli Screaming Trees, John Baker Saunders dei The Walkabouts, con la partecipazione di Mark Lanegan). Above è in realtà un disco che si forma sul basso del compianto e semisconosciuto Baker Saunders, dove però Staley scrive e canta – mi sbilancio – meglio che in tutti gli altri dischi registrati con gli Alice in Chains. Iniziare da Wake Up e chiudere con All Alone è una sorta di Cammino di Santiago di quei Novanta, un percorso di devozione/espiazione da fare e rifare. Qualcuno dirà che è un disco disomogeneo, e forse è così, ma è qualcosa di unico anche per questo. Si passa da pezzi come River Of Deceit alla bossa nova nostalgica di Long Gone Day come se niente fosse, però ad avercene di dischi così, oggi.

5. “Down on the upside” di Soundgarden (1996)

Per ultimo, non potevo non parlare di Down on the upside. Me lo diede un’amica in cassetta vent’anni fa, e anche se riuscissi a togliere l’aspetto affettivo da questa rivalutazione, rimarrebbe sempre un piccolo grande album. Colpo di coda dei Soundgarden e in primis di Chris Cornell, Down on the upside è un disco portatore sano di dissidi interni tra lo stesso Cornell e il chitarrista sghembo e geniale Kim Thayil. Non ha l’equilibrio perfetto di Superunknown e neanche la pura rabbia vergine di Badmotorfinger, ma ci sono diversi pezzi che raggiungono livelli alti (Pretty Noose, Zero Chance, Applebite), e ad ascoltare Blow Up The Outside World, sembra di avere tra le dita la sintesi naturale di quanto fatto di buono fino allora. Sarà per la variazione dei toni tra il ritornello e le strofe, per gli echi dei fraseggi, o per quel testo che inizia così: “Nothing seems to kill me no matter how hard I try”.
Poco fa sono andato a rivedermi il videoclip (diretto da Gerald Casale, bassista dei Devo), e casualmente ho letto il primo commento lasciato da un ragazzo: I listened to this every day for six months in my art studio in Texas. My sister was 800 miles away in the midwest, dying from cancer. This song got me through the three months of her dying and the three months after she was gone. There’s no lesson here, just a thanks to the band that helped me through those moments with this incredible song.
La chiudo qui, con l’invito a riascoltare questo pezzo, non per dimenticare la morte di Wood, di Cobain, di Staley, o di Cornell, ma per ricordarle sempre e non perdere mai il senso del limite, e con esso intendo quell’idea greca di limite. L’avevo appuntata a penna vent’anni fa all’interno di quella cassetta: “Dove sta esattamente il limite delle cose? In quanto uomini abbiamo dei limiti, ma sono proprio loro a farci grandi, e a collocarci al fianco degli dèi, forse sopra. Ecco dove sta il limite: nella sensazione di grandezza che ci coglie nel rispettarli”.
È un’esperienza facile da fare, tutte le volte che ci fermiamo un attimo prima di offendere la nostra natura.

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