Ve la ricordate Lily Allen? Dai: inglese, super tenace, capelli scuri, frangetta. Quella che con una voce soave ti canticchiava roba apparentemente frivola ma che in realtà parlava di vendetta, picchiare gli ex, mandare a fanculo chi se lo merita? Una decina di anni fa andava fortissimo anche da noi (Fuck You, Not Fair o Smile sono onestamente delle hit), poi però si è un po’ persa. Dal 2010 si è vista poco in giro, facendo qualche comparsata qua e là ma nulla di consistente fino a quest’anno. A gennaio infatti la gente è tornata a parlare di Lily, non tanto per il suo nuovo singolo (molto diverso dal solito ma comunque ok), ma piuttosto per un suo tweet che in poche ore è diventato virale. Mostra il cartellone del Wireless Festival 2018, ma come in un’opera di Emilio Isgrò varie parole sono state cancellate per farne risaltare altre.
The struggle is real pic.twitter.com/R58zKuCaK2
— Lily (@lilyallen) 23 gennaio 2018
Via i nomi degli artisti uomini, mentre quelli delle donne no. E non bisogna di certo essere Philippe Daverio per cogliere il senso dell’opera: fra maschi e femmine nel programma c’è una disparità mostruosa. Se togliamo tutti gli uomini dal cartellone, dei tre giorni di festival rimangono tre donne: Mabel, Cardi B e Lisa Mercedez. Il giorno di mezzo, sabato 7 luglio, addirittura non ce n’è manco una. I rappresentanti dell’evento londinese si sono subito smarcati dalle accuse dichiarando che inizialmente le donne contattate erano 18, ma che solo tre poi hanno confermato. Colpa di incompatibilità tecniche di tour e date, hanno detto. Scuse un po’ insoddisfacenti, perché il problema innanzitutto non è isolato, e nel caso specifico del Wireless è pure aggravato da elementi che vedremo più sotto.
Secondo un’indagine condotta da Pitchfork, il 74% degli act inseriti nei festival inglesi del 2017 erano composti esclusivamente da uomini, il 14% da donne e il 12% da band di gender misto. “The struggle is real” ha scritto Lily Allen nel famoso tweet. Ma la struggle che vediamo qui non è soltanto real, è pure ovunque. Per il quinto anno di fila, fra gli headliner del Bonnaroo non troviamo un nome femminile neanche a pagarlo. Un dato non trascurabile, parliamo di uno degli appuntamenti musicali più seguiti in America.
A rincarare la dose, come fa notare l’edizione USA dell’HuffPost, nella lineup dell’Ultra Music Festival di Miami 2016, di 218 artisti, 198 erano uomini, 20 invece le donne. Una tragedia, soprattutto perché poi in confronto fa sembrare il Coachella dello stesso anno—196 artisti maschi e 68 fra act di generi misti e donne—un evento “quasi” attento alle quote rosa. Ma così non è. Teniamo poi conto delle categorie un po’ furbette come quella degli act misti. Sono ingannevoli, perché tengono conto anche delle bandi in cui compare una sola donna. Della serie, io gli Arcade Fire—cioè Regine Chassagne più cinque maschi—non la considererei di certo una band che sventola in alto la bandiera rosa.
Se poi andiamo ancora più a fondo, cercando di scagionare qualche festival tenendo conto anche dei generi musicali che offre (nel rock, ovvio, ci sono molte meno ladies che nel pop), le cose anziché migliorare peggiorano. Come dicevamo prima, oltre che isolato il caso del Wireless è aggravato dal fatto che viene considerato un evento di urban music. Cioè un macro genere che letteralmente pullula, specie in UK, di artiste incredibili.
Una buona sintesi del fenomeno l’ha fatta Forrest Wickman, giornalista di Slate: «Il vero problema della maggior parte di questi festival risiede nelle culture alternative che essi stessi celebrano, spesso nate in ambienti dominati dagli uomini. La jam music (nel caso del Bonnaroo), l’indie rock anni ’90 (Coachella) e l’alternative grunge (Lollapalooza). Questi festival celebrano la diversità ma ignorano gli artisti più popolari—spesso ai primi posti delle classifiche, spesso donne—e li considerano frivoli o espressione delle major».
E in Italia? Qui da noi la situazione non è molto diversa da quella del mondo anglofono, ma ci sono alcune precisazioni da fare. La prima: non esistono analisi sulla quantità di artiste negli slot più importanti dei festival del paese, e per individuare alcuni punti fermi siamo andati a studiare le line-up degli eventi musicali principali degli ultimi tre anni (dal 2015 al 2017). Abbiamo suddiviso gli artisti in tre gruppi: uomini, donne e misti, e abbiamo buttato giù un grafico per capire come sono distribuiti nei vari cartelloni.
La seconda precisazione: il numero di festival, così come quello degli artisti, varia di anno in anno. Alcuni diventano sempre più grandi, altri spariscono, altri ancora nascono per esaurirsi in una sola edizione. Per fortuna il numero degli eventi tende ad aumentare, probabilmente grazie al rinnovato stato di salute della musica italiana, di nuovo al centro degli interessi di larghe fette del pubblico. Parlando di donne, invece, i numeri sono anche qui pessimi. Su una base che oscilla tra i 70 artisti (2015) e i 106 (2017), le donne sono al massimo 18. Gli artisti misti 15, gli uomini arrivano a 73.
Ma c’è una particolarità. A differenza di quanto succede oltreoceano (Ultra Music Festival su tutti), è la scena dell’elettronica quella più eterogenea e disponibile a offrire alle donne gli slot migliori per esibirsi. Il contrario di quanto accade nei festival più “generalisti”, dove i numeri sono davvero impietosi.
Alla luce di tutto questo ragionamento, il dato più spaventoso a livello mondiale è che, spesso, le donne compongono la maggioranza del pubblico nei festival. Solo in America, ogni anno nella oltre 32 milioni di persone vanno sporcarsi le scarpe di fango, fare la coda per la birra e pisciare in cessi maleodoranti soltanto per un po’ di sana musica. E di questi 32 milioni di americani, il 51% sono donne. Il che significa che non solo il popolo femminile può ambire a slot più importanti e palchi più seguiti, ma addirittura pretenderli in quanto azionista di maggioranza della macchina dei festival.
E non provate, cari organizzatori di festival, a venirci a dire che mancano le artiste, però. In Italia, le cose stanno cambiando moltissimo, anche in generi dove c’è sempre stata carestia di quote rosa—basti pensare a Verano, Mèsa e Maria Antonietta nell’indie e Bonnie Pupetta, Priestess o Marti Stone nel rap. Se poi non dovessero andare bene, se dovessero servire nomi grossi per riempire parterre e spalti, esistono poi delle macchine formbidabili chiamate aerei. Perché di artiste valide, per fortuna, ce n’è molte anche all’estero.